Le origini dei birrifici artigianali italiani
Era il 1996 quando aprirono i battenti tre importanti birrifici artigianali italiani, capostipiti di una rivoluzione ancora in pieno fermento: Baladin, Birrificio Italiano e Lambrate. In diciotto anni la birra artigianale italiana ha raccolto consensi inaspettati (per Assobirra è la bevanda alcolica preferita dalle donne), successi commerciali (nel 2014 segna +13% nell’export, con oltre la metà delle spedizioni dirette nei pub del Regno Unito) e oggi conta oltre 600 micro birrifici attivi sul territorio nazionale.
Il boom è assodato, ma per chi si accontenta di cavalcare l’onda, c’è chi pensa a costruire un valore reale e duraturo nel tempo per la birra made in Italy. È di nuovo l’agricoltura, la produzione a filiera chiusa, dai cereali, al malto, al luppolo, a indicare la strada per un nuovo slancio del settore. Si parla molto di birra italiana, ma in verità quanto di realmente prodotto in Italia c’è dentro? La risposta è poco o niente, malti, luppoli e lieviti vengono acquistati all’estero, non tanto per noncuranza dei birrifici, quanto per mancanza di materia prima nazionale.
Il progetto del malto d'orzo italiano Co.Bi.
Dal 2003 il progetto del Co.Bi, unico consorzio nazionale di produttori di orzo e di birra con sede ad Ancona, si propone di lavorare a un malto italiano: “Gli agricoltori aderenti al Consorzio conferiscono il 150% di orzo rispetto a quello che ritirano; da questo orzo viene selezionato quello adatto alla maltazione che sarà poi reso ai soci per la produzione delle loro birre. Il malto proviene quindi non dal singolo agricoltore, ma dall'insieme della produzione dei soci, assicurando in questo modo la selezione dell'orzo migliore e maggiormente adatto ai vari tipi di malto” spiega il Presidente del Co.Bi. Fabio Giangiacomi “Solo così la birra diventa un prodotto di filiera agricola, vincente perché espressione della natura. Se non diamo spazio a progetti come questo, l’agricoltura è morta, la birra italiana è morta, e non potremo mai competere sul mercato internazionale”.
In un paese in cui le accise sulla birra sfiorano il 40%, il maltificio Co.Bi ha reso possibile attuare il Decreto Ministeriale n. 212 che permette di produrre birra rimanendo nel regime fiscale agricolo (soggetto a tassazioni più vantaggiose), purché si dimostri che almeno il 51% della materia prima impiegate è autoprodotta. Birra artigianale e agricoltura diventano alleate per rendere sostenibile (in tutti i sensi) il sistema, ma anche per creare nuove opportunità. Una di queste è sicuramente la coltivazione di luppolo.
Il luppolo in Italia
Oggi l’Italia conta 154 luppoleti, per lo più coltivazioni amatoriali. Eugenio Pellicciari, giornalista e agronomo impegnato nella ricerca dell’Università di Parma, “Luppolo Autoctono di Marano sul Panaro”, chiarisce che il problema della coltivazione del luppolo in Italia non è di ordine climatico (la penisola rientra fino alla Calabria nella latitudine adatta per la produzione), ma di carattere legislativo: non esiste nessun modello di fattibilità aziendale o tutela normativa per chi voglia intraprendere questa strada. “I problemi sono due. Il primo, che non ci sono farmaci certificati (cioè utilizzabili espressamente per il luppolo) per combattere eventuali infestazioni; si tratta di farmaci regolamentati a livello europeo, impiegati nei luppoleti stranieri, ma finché l’Italia non riconosce il luppolo come prodotto agricolo nazionale non potremo usarli. Il secondo è di carattere pratico: la raccolta dei coni deve essere fatta manualmente con tempi e costi che ne conseguono” spiega Antonello Musso, titolare dell’Azienda Agricola Frè in provincia di Cuneo, che tra i primi ha scommesso sulla birra come prodotto agricolo, composta da orzo e luppolo prodotti nella sua campagna. Socio Co.Bi, può contare su un malto artigianale con profumi che nell’ambrata si esprimono con una pienezza del corpo davvero rara nelle birre italiane. “Non voglio illudere nessuno. Per coltivare luppolo e avere risultati ottimali sono necessari almeno dici anni dall’impianto” continua Antonello Musso “È stato molto difficile identificare quali, fra le tante varietà al mondo, si adattasse meglio al nostro tipo di terreno. Ci abbiamo messo 5 anni di sperimentazione, provando 8 varietà per selezionarne una”.
Come lui ancheNiki Ferri del Birrificio Grignè di Corropoli (Te) produce birra agricola. Le materie prima arrivano dalla sua azienda che, fino a quattro anni fa, produceva farine; oggi Grignè è un birrificio agricolo, confermando come la produzione di birra possa essere un’alternativa alla crisi degli agricoltori, strozzati dalla guerra dei prezzi. Il suo luppoleto sulle colline teramane conta 150 piante e i fiori appena raccolti compongono il bouquet floreale della BiVa e la spaziatura delicata della Donna Elena.
Bionòc e il bioluppolo
Non solo sperimentazioni sul luppolo ma anche sulla maltazione in proprio per il Birrificio trentino BioNoć. La 100% Primiero è una birra stagionale prodotta con cereali maltati in casa e luppoli trentini. “Possiamo garantirvi l’instabilità totale di questa birra” spiega Fabio Simoni, titolare e mastro birraio BioNoć “pensa che l’anno scorso era bionda… quest’anno è ambrata. Ma questo è il bello”. Bionòc è promotore di un un’iniziativa interessante per comprendere l’importanza del network tra agricoltura e birrifici: Bioluppolo. Il progetto riunisce a sé gli agricoltori trentini nell’obiettivo di trasformare il Trentino nella regione di riferimento per la produzione di luppolo italiano. “Esistono diversi tipi di luppoli nella geografia mondiale: luppoli tropicali (Napa Valley, Nuova Zelanda), luppoli piovosi (inglesi), luppoli freddi (tedeschi, sloveni). Ci siamo accorti che il Trentino riassume tutti questi microclimi: ha zone calde (Riva del Garda, Piana Rotaliana e Valle dei Laghi) con clima mediterraneo dove pianteremo luppoli tropicali, zone fredde ideali per luppolo tedesco e sloveno, zone piovose, come la Val Sugana, perfette per i luppoli inglesi”. Approcci diversi per un unico obiettivo: una birra made in Italy al 100%, che possa avere più valore nel mercato e dare nuovo impulso all’agricoltura.
Il luppolo autoctono italiano
Ad oggi non esiste una varietà autoctona certificata di luppolo italiano. A questa selezione stanno lavorando le Università di Parma (Progetto di ricerca “Luppolo autoctono di Marano sul Panaro” e quella di Udine (Progetto di ricerca CRISTA sulla filiera della birra italiana). “Sul luppolo spontaneo c’è ancora tanto da lavorare, si devono incrociare gli ecotipi e ci vogliono almeno 15 anni per una buona selezione naturale” SpiegaFederico Capone, ricercatore del team del Prof. Buiatti della facoltà di agraria di Udine “I valori di alfa acidi sono molto bassi (3/4%) nei luppoli selvatici, quindi sono più profumati ma meno amari. Il rischio è di caratterizzare troppo la birra con profumi di aglio e la cipolla che sono varietali nei luppoli selvatici”. Dall’Università di Parma arrivano analisi fisico-chimiche e genetiche che fanno ben sperare: “Dai dati raccolti nei nostri campi sperimentali osserviamo che ci sono varietà locali molto interessanti, vicine ad alcune linee genetiche estere molto qualificate”, spiega Eugenio Pellicciari che conclude indicando tendenzialmente i luppoli americani come varietà che si prestano meglio al suolo italiano.
Birragricola
Produrre luppolo, orzo e malto per avere una birra a filiera chiusa, certificabile come un prodotto agricolo italiano. Questo l’obiettivo del marchio di tutela Birragricola di proprietà del Consorzio Co.Bi. “Per utilizzare il marchio birragricola, gli agricoltori devono produrre birra con almeno il 70% della materia prima prodotta internamente al consorzio, invece del 51% previsto a norma di legge. E, cosa non da meno, devono poterlo dimostrare e tracciare” spiega il presidente del Co.Bi. Fabio Giangiacomi “La birra agricola garantisce un prodotto naturale, figlio della terra e del lavoro dei produttori”. Ma produrre birra agricola e utilizzare il marchio di tutela non basta per garantire una birra di qualità. Gli assaggi delle birre agricole, troppo spesso, evidenziano prodotti grossolani. Lo stesso Presidente invita a una riflessione importante: per produrre birra non basta avere un buon malto, ma sono necessarie formazione ed esperienza prima di essere mastri birrai competenti. Una buona birra è fondamentale per far funzionare la rivoluzione della birra agricola.
a cura di Laura Di Pietrantonio
Articolo uscito sul numero di Maggio 2015 del mensile Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui
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