"I vini dealcolati? Una stronzata. Se i giovani bevono meno è colpa dell'industria". Intervista a Josko Gravner

18 Lug 2024, 09:58 | a cura di
Josko Gravner è il padre spirituale degli orange wine. Le sue macerazioni nel Collio goriziano hanno contagiato mezzo mondo del vino, e avverte: "Non è che se usi l’anfora per macerare uva prodotta male, con dei difetti, il vino migliora"

Ogni tanto, di giorno, Josko Gravner sparisce. È in cantina. Una cantina dove la luce entra fioca da un’unica finestra e in assenza di tutto è perennemente semivuota, neppure le anfore di terracotta si vedono, puoi solo divertirti a contare il numero dei buchi circolari che sporgono in superficie, incastrate sotto tonnellate di terra friulana. Con la solita lentezza apre i coperchi pesanti e guarda dentro. Lì il vino riposa da mesi. Le anfore più vecchie, quelle interrate alla fine degli anni Novanta, ci sono ancora, ma sono state spostate in giardino una accanto all’altra a formare una piccola muraglia. «L’anfora ha 5mila anni di storia, sono convinto che è il recipiente più idoneo per il vino», dice nel suo italiano contaminato dalla linea di confine con la Slovenia che passa accanto alla sua casa di Lenzuolo Bianco, non lontano dal sacrario di Oslavia. Il contenitore georgiano è il punto di arrivo di Gravner, considerato a ragione uno dei più grandi produttori italiani, che dalla fine degli anni Settanta ha fatto la storia del vino e che vent’anni dopo ha avuto il coraggio di cambiare tutto: sradica tutti i vitigni internazionali per iniziare a vinificare solo ribolla, l’uva del Collio.

L'intervista è disponibile sul mensile Gambero Rosso di luglio, in edicola

L'intervista a Josko Gravner

Settantadue anni, 60 vendemmie alle spalle, i suoi vini nascono dal tempo dopo sei mesi di macerazione sulle bucce e sette anni in anfora. Gravner non ha aggiunto nulla, si è limitato a togliere il superfluo. È andato per sottrazione. «Il mio stesso vino non riuscivo più a berlo», confessa. Oggi produce, insieme a Mateja (sua figlia) e Gregor (suo nipote), tra i migliori vini bianchi italiani, o meglio orange wine di cui è stato visionario e precursore. E come molti altri viticoltori vive le incertezze del momento, vendemmie più difficili a causa del maltempo, aumento dei prezzi e consumi in calo.

Gravner, i giovani bevono sempre meno vino, i consumi stanno crollando.

Hanno ragione a bere meno.

Ma da produttore non è preoccupato?

Non è questo il punto, ci sono dei vini molto difficili da bere.

 Che intende?

Sono talmente perfetti, talmente carichi, impeccabili dal punto di vista delle analisi che paradossalmente non piacciono. Non vanno giù.

Si spieghi.

Sono vini più o meno costruiti in cantina. Il grado alcolico è basso, sinonimo di grande produzione e vendemmia anticipata. Chi invece vuole fare un vino serio, con un grado alcolico alto perché ha raccolto uve mature, viene castigato. Sono vini che spesso vengono venduti a prezzi inferiori alla birra o all’acqua minerale; il prezzo rispecchia anche la qualità, e quindi non stupiamoci se i giovani non bevono più. Fanno bene.

Il consumatore però sembra cercare vini più freschi, leggeri, bevibili.

Ma il vino non va bevuto per dissetarsi. In Francia, a differenza del passato, alcuni viticoltori producono degli Chardonnay che sembrano degli spritz, e sono tutti uguali. Sono vini “moderni” ma solo per cinque anni, dopodiché arriverà un’altra moda.

Ma cosa spinge la crisi?

C’è sicuramente troppa produzione.

Il vigneto Dedno di Josko Gravner

Il clima però incide. A causa delle ondate di caldo si tende ad anticipare le vendemmie, le uve maturano prima, il rischio è che il grado alcolico alla fine della fermentazione sia troppo alto.

Non è il grado alcolico a rendere il vino “pesante”. Ci sono ben altre cose, come la filtrazione e i lieviti aggiunti. È anche questo il motivo per cui il vino viene bevuto meno. I miei vini più grado alcolico hanno più sono buoni, questo perché c’è una bassa resa per ettaro e la vendemmia è tardiva. Solo così un vignaiolo può migliorare la qualità dei suoi vini.

I cambiamenti climatici li sta notando in vigna?

Assolutamente sì, c’è qualcosa che non funziona.

Ha cambiato qualcosa nel modo di produrre?

Lavoro di più. E per la prima volta ho dovuto anticipare la vendemmia, anziché a ottobre, mio desiderio da sempre, devo iniziare intorno al 20 settembre. Non per avere vino con meno struttura zuccherina, ma per non perdere metà della produzione, negli ultimi 5-6 anni abbiamo avuto molte piogge.

Quindi alcuni raccolti sono andati persi?

Certo, ho avuto delle perdite, ma non c’è qualità senza rischio, no? Non è detto neppure che riesci a ottenere un vino di qualità, ma vogliamo andare avanti così. Non vogliamo fare vini in batteria tutti uguali, come ce ne sono in giro da nord a sud, non sono in Italia, ma nel mondo. Non dobbiamo stupirci se poi le persone si stufano di bere vino.

Il vigneto Hum. Foto di A.Barsanti

Estirpare i vigneti: l’Italia ci pensa, c’è troppo vino da smaltire. Qual è la sua opinione?

È paradossale. Mentre in Francia, a Bordeaux, iniziano a estirpare i vigneti, qui in Friuli ogni anno si impiantano ettari ed ettari ovunque, anche in pianura. Si è fatto anche grazie ai contributi dello Stato. Ora invece si discute se estirpare anche in Italia, e lo Stato potrebbe prevedere contributi pure per questo. È chiaro che abbiamo un modello di viticoltura che non funziona più, sono stati fatti degli sbagli a monte.

 Ovvero?

I vigneti sono stati piantanti in aree non vocate al vino. Per anni i diritti di impianto sono stati concessi a tutti e ancora succede. Si fanno crescere viti pure nelle paludi, nelle zone bonificate. In pianura si deve produce mais, frutta, frumento e non uva.

Ma lei è d’accordo oppure no con l’estirpazione?

Dipende dove estirpiamo. In collina non sono d’accordo, in pianura invece sì. Nelle zone non vocate i vigneti non dovrebbero starci.

Alcol. Negli Stati Uniti hanno intenzione di rivedere la dose minima consigliata, l’Unione europea insiste per retro-etichette come sulle sigarette. È in corso una demonizzazione?

In parte sì, ma è anche colpa dell’industria del vino che ha immesso nel mercato vini tutti uguali, e che sono quello che sono. Ma il consumatore apprezza anche altri tipi di bottiglie, vini fatti diversamente, più legati ai territori e alla tradizione, in cui il contadino sfida la natura rispettandola senza cercare la quantità.

Josko Gravner si appresta alle operazioni di svinamento nella sua cantina di anfore interrate

Che ne pensa dei vini senza alcol?

Una grande stronzata.

Li possiamo chiamare vini?

Per me no.

In Italia ormai da diversi anni hanno preso piede i Piwi, i vitigni resistenti. Che ne pensa?

Vediamo quanto saranno resistenti (sorride, ndr). Anche quello è un intervento che la natura ci farà pagare. Con il tempo arrivano nuove malattie, adesso risparmi un trattamento, ma andando avanti dovrai fare altri trattamenti per altre malattie. Sta a già succedendo.

E i vini affinati in mare?

Non è che se mandi un bambino a scuola poi quello diventa Einstein. L’affinamento non cambia un vino nato male. Spesso è pubblicità.

Le anfore nella cantina di Gravner

Vino naturale e convenzionale. C’è ancora una netta separazione oppure i due mondi si sono influenzati a vicenda?

Non mi piace parlare di vino naturale, il vino non ha nulla di naturale. Però la prima volta che venne Luigi Veronelli in cantina da me mi disse “Josko, preferisco il peggiore vino del contadino rispetto al migliore dell’industria”. All’epoca non ero d’accordo, ma poi ho capito che aveva ragione.

Al di là dei termini, lei è innegabilmente vicino alla filosofia produttiva dei viticoltori “naturali” e i suoi sono vini sono apprezzati da ambo le parti.

Sì, ma anche i miei vini possono avere dei difetti, è normale quando lavori con meno interventi possibili. Può succedere di tutto, ma devi accettarlo, altrimenti che lo facciamo a fare il vino? Il nostro sicuramente non è un vino da cibi ultraprocessati.

 In Europa lei è stato un pioniere nell’uso dell’anfora georgiana. Per la prima volta dopo decenni anche Vinitaly ha organizzato un evento sul tema. Qualcosa è cambiato.

Più se ne parla meglio è. Per me l’anfora sta al vino come l’amplificatore sta alla musica. Certo è, non è che se usi l’anfora per macerare uva prodotta male, con dei difetti, il vino migliora.

Prima o poi vedremo Josko Gravner al Vinitaly?

No, sto bene qui in Collio.

Macerazione del vino. Il Guardian dice che gli orange wine saranno i vini dell’estate. È una moda passeggera?

Spero non lo sia, ma di certo non dobbiamo correre dietro al cambiamento solo per cambiare qualcosa. Se si crede in un modo di lavorare allora va bene, se invece lo facciamo solo perché lo chiede il mercato, allora è chiaro che è una moda. E la moda dura solitamente una stagione.

I modelli a cui si è ispirato?

Uno è stato Gianfranco Soldera, era scorbutico, ma aveva spesso ragione.

Cosa non rifarebbe mai nel suo lavoro?

Ho estirpato Chardonnay, Pinot nero, Pinot grigio e quindi una cosa che non farei mai è piantarli. In Collio non ha senso.

Sei mesi di macerazione sulle bucce e sette anni in anfora. La sua Ribolla è un vino quasi da meditazione che va controtendenza rispetto ai tempi odierni in cui ci soffermiamo poco o nulla sulle cose. L’interesse è sceso rispetto al passato?

Non abbiamo mai avuto un’enorme richiesta di vino, è normale quando vai controcorrente. Ci sono due modi di fare il vino: quello che chiede il mercato oppure fare il vino. Io ho scelto il secondo modello. Anche nel nostro caso c’è il cliente che apprezza.

La nuova generazione Gravner si chiama Gregor, suo nipote.

Beh, Gregor è il mio braccio destro, sto diventando vecchio. Lui sta prendendo in mano l’azienda, è molto bravo.

Ha pensato di lasciare?

Ci ho pensato, ma non sono pronto.

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