Quindici secondi e a volte nemmeno quelli. Per comprendere vita, morte e miracoli di un vino oggi non dedichiamo che il tempo di una storia su Instagram. Ci focalizziamo sull’attacco, il titolo, la prima impressione, poi “scrolliamo” e portiamo la nostra precaria attenzione altrove. È una questione di concentrazione, e di volontà: non abbiamo più la predisposizione per ascoltare un album dall’inizio alla fine, non ci passa per la testa di seguire l’evoluzione di un’intera bottiglia con il passare dei minuti. Il vino gira veloce, al bicchiere e in cantina, spesso è dell’annata corrente perché in pochi hanno pazienza e capacità di stoccaggio. La cultura dell’istante si è presa anche il nostro vino: lo vogliamo subito e lo vogliamo pronto. In discussione non ci sono solo gli spostamenti nei consumi ma l’identità del vino come prodotto culturale.
Effetto social
Qual è l’effetto dei social sul gusto del vino, l’abbiamo chiesto a Cristina Mercuri, candidata Master of Wine e fondatrice del Mercuri Wine Club, tra formazione e consulenza. «Il ragionamento è complesso. Lo stile del vino, il concetto di contemporaneità è cambiato: i vini sono scarichi di colore e alcol, sono sempre più slanciati e lineari. Ed è connesso al concetto di consapevolezza del consumatore, aspetto salutistico in primis: i giovani sono attenti alla forma fisica, sono preoccupati del cambiamento climatico e pensano che i vini più leggeri siano anche più sostenibili. I social sono la conseguenza di quello che è lo stile dominante». Cristina, la prima donna italiana ad arrivare in fondo all’esame di Master of Wine, non ha alcuna remora a denunciare quanto sia maschilista il mondo del vino. Basti vedere il rumore generato da un’intervista a Il Giornale quando ha dichiarato di essere una degustatrice pazzesca quando ha il ciclo: «Se ci si scandalizza per la natura umana allora siamo ancora molto lontani».
Sui social, spiega, ci sono due tipi di approcci al vino: uno molto verticale e specializzato per tipologia, ad esempio sullo Champagne o sulle grandi etichette; oppure si percorre un profilo più trasversale, come il suo, dove si affrontano argomenti di natura educativa e temi d’attualità. «Parlare di influencer nel mondo del vino è complicato. Esiste una platea di micro-creatori che non ha nessun tipo d’influenza. L’influencer non è definibile tanto dal suo numero di follower ma da quanta autorevolezza trasmette». Il linguaggio, anche quello dei social, ha bisogno di uniformarsi agli standard internazionali e di avvicinarsi al consumatore, che è sempre più dinamico, curioso. E non vuole mai sentirsi in difetto o lontano. «Occorre comprendere le esigenze e parlare la lingua di chi ascolta. Il compito di un master of wine, di un esperto, è tradurre in termini semplici concetti complessi. Lì si vede la sua bravura», centra perfettamente, Cristina.
Il vino al tempo di Instagram non ha più riferimenti assoluti, etichette capaci di mettere d’accordo tutti, in una polarizzazione da ultras favorita dal medium. «Instagram, ma in generale tutti i social hanno frammentato gli appassionati di vino in gruppi, tribù contigue ma quasi impermeabili. Chi segue certi follower, chi altri, tende sempre a riferirsi a chi la pensa e beve come lui. Ci sono delle segmentazioni sempre più marcate, si tende a parlare di vino sempre più spezzettando l’esperienza, ci si focalizza su dettagli. E si perde la visione d’insieme, il fatto che il vino sia il frutto di un’annata, una vigna, un produttore. Il vino come prodotto culturale è sempre più roba da vecchi», commenta Paolo Trimani, titolare della più antica enoteca di Roma, che gestisce anche un wine bar, oltre a una distribuzione di vini. Sul fronte vini bianchi cresce lentamente la richiesta di etichette mature, nonostante i prezzi ancora molto competitivi. «La ristorazione ha già tanti problemi e non ha grande interesse a fare lavoro specifico sul vino. Il vino è una componente del budget, si vogliono massimizzare i ricavi ma senza investire troppo. Sono ancora in molti a non volere l’annata vecchia neanche fosse un avanzo. Eppure, non capiscono che così facendo si perdono tantissime occasioni perché ci sono tanti clienti che non vorranno spendere di più solo perché non hanno trovato qualcosa che li soddisfi veramente. Si chiama introito mancato», aggiunge. Sul fatturato annuale dell’enoteca il peso tra bianchi e rossi è paritario, 40% e 40%, ma il prezzo medio di un rosso generico è più di una volta e mezzo quello di un bianco, fa notare Paolo.
Svolta in bianco
L’uso compulsivo del cellulare produce un deficit di attenzione, ragionamenti veloci, di pancia più che di testa. E un’iperattività di fondo che nel bicchiere si traduce in una vera svolta in bianco e in una sostanziale fuga dalla densità in rosso. Il fenomeno è di portata mondiale. «Negli Usa le vendite di vini rossi nel 2023 sono calate del 9%. Una flessione che riguarda tutte le principali varietà: dal Cabernet Sauvignon (-7%) al Merlot (-12%), per arrivare al -16% del Syrah. E per il futuro preoccupa soprattutto che il vino è la bevanda meno presente tra i consumatori giovani con una quota del 13% contro il 30% di spirit e birra», spiega Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio del vino dell’Unione italiana vini. Dati simili si registrano in Canada e il trend colpisce anche il Nord Europa, solido riferimento per la tipologia: anche qui il consumo si sta spostando sempre più su bianchi e bollicine. L’abbiamo toccato con mano durante il tour mondiale Tre Bicchieri. La musica non cambia neppure nei nostri confini: tra il 2000 il 2021, in Italia i consumi di bianchi sono cresciuti del 10%, i rosati del 15,4%, mentre il consumo di rosso è crollato del 30,6% secondo un recente studio OIV. Venti anni fa un vino su due consumato nei nostri ristoranti era un rosso, ora la media è uno su tre (36% la media nazionale). Prendiamo in riferimento la grande distribuzione, negli ultimi cinque anni mancano quasi 800mila ettolitri di rossi nel venduto. Le influenze in cucina spingono in questa direzione: il consumo di carne è in calo – le stime sono per una discesa molto più accentuata nei prossimi anni – i piatti sono sempre più snelli e meno grassi, una misticanza appena colta ha lo stesso appeal di una bistecca al sangue di 10 anni fa. Si vuole stare leggeri e si cerca pulizia e finezza nel piatto e nel bicchiere. Aggiungiamoci anche una certa disabitudine alla pressione dei tannini, che escono dal portone principale sui rossi per rientrare timidamente dalla finestra sui bianchi macerati, spesso lavorati nell’anfora: il contenitore più social del vino.
In crescita le bollicine
«Lo spostamento c’è, bianchi e bollicine finiscono in un paio di mesi, i rossi ci mettono mediamente molto di più. Nel nostro listino notiamo una forte richiesta di Chenin Blanc, così come è in crescita il Gamay. Finalmente il consumo è virato su rossi che si bevono, non quei mattoni di qualche anno fa», dice con una certa enfasi Piero Guido della distribuzione Le Caves de Pyrene, molto orientata su vini artigianali. «Io opero soprattutto su Roma. Diciamocelo, è diventata una città di bianchi; se non fosse per i turisti tanti rossi prenderebbero solo polvere. D’altronde con questo clima così mite anche in pieno inverno che cosa si dovrebbe bere?», si chiede un navigato agente di vini come Andrea Cozzini di Sadawine. Lavora un portafoglio più generalista, ricco di cantine celebri e strutturate. E anche nelle denominazioni più importanti per i rossi in Italia qualcosa si muove. Sergio Germano, titolare della cantina Ettore Germano a Serralunga d’Alba, è stato tra gli apripista in Langa a puntare sul Riesling e poi sull’Alta Langa, che rappresentano due-terzi della produzione, nonostante firmi alcuni dei Barolo più fini e profondi del territorio. «Il consumo di spumanti e bianchi si sta ampliando vuoi per la contingenza climatica vuoi per il nostro stile di vita. Andiamo sempre più spesso a cena fuori, al wine bar, cerchiamo bevute veloci, il bicchiere al volo dopo il lavoro, un calice lontano dai pasti, prima o dopo cena. Vini di caratura leggera», ci racconta.
Esempio vermouth
Sergio ha iniziato a produrre bianchi in zona 35 anni fa: «Quando ho piantato, i signori del posto ridevano. Io ci credevo, ma poteva essere un flop perché andavo in contro-tendenza. Oggi c’è tanto interesse e sono contento perché c’è una squadra e non più un singolo con i suoi esperimenti». Quando parliamo di social, Sergio ci ricorda quanto questi strumenti abbiano contribuito a valorizzare altre tipologie di vino. «Negli ultimi c’è interesse anche per il rosé, anche in questo caso c’entra il caldo, ma io credo nei corsi e ricorsi della storia: 15 anni fa i vermouth erano estinti, quando ero ragazzo erano una roba da nonni; oggi, invece, fanno figo e sono molto usati sia in purezza che nella miscelazione», sorride. E se il Barolo si conferma un’isola felice nel panorama rossista, il “vizio” preferito dei produttori di Langa è quello di acquistare qualche filare di Timorasso nell’Alessandrino, per arricchire l’offerta. Se scendiamo lungo i cipressi di Bolgheri, assistiamo a un fenomeno simile. Qui la doc Bolgheri Bianco sta vivendo una seconda gioventù, con etichette importanti, vedi Ornellaia, che negli ultimi anni hanno sfoggiato la loro etichetta di punta in bianco. E, udite udite, addirittura si fanno spazio un paio di cuvée interessanti tra gli spumanti.
I vini da concorso
«I territori che rappresentavano lo stereotipo dei “vini da concorso” di fine anni '90 e inizi 2000 hanno compreso la necessità di puntare a un equilibrio diverso, senza snaturare la propria identità – afferma Francesco Saverio Russo, che grazie al suo Wine Blog Roll e ai social (100mila follower su instagram) ha costruito una carriera di successo – Credo sia necessario un distinguo semantico fondamentale fra leggerezza ed eleganza, fra esilità e finezza. Ci stiamo convincendo che consumatori e operatori del settore stiano virando verso vini solo più “beverini”, ma non è così o, almeno, lo è solo parzialmente. Ciò che sto osservando è una maggiore attenzione a quella che mi piace definire “agilità di beva”, che non è necessariamente correlata ai meri valori analitici di acidità e alcol di un vino, bensì alla capacità di un vino di assolvere al suo compito primo, ovvero essere bevuto senza troppi patemi d'animo».
Effetto Eco Chamber
La ricerca di vini più dinamici e versatili parte dall'alto (sommelier dell'alta ristorazione, enotecari e media), senza però relegare i rossi strutturati a un ruolo marginale. Sulla loro crisi, Russo invita però ad andarci piano: «Il mondo del vino soffre di un complesso che si definisce “Eco Chamber”, ovvero di una situazione in cui informazioni, idee e convinzioni/credenze, spesso vengono amplificate dalla loro ripetizione all'interno di un sistema chiuso e definito». Un fenomeno che induce a sovradimensionare la portata di alcuni fenomeni, amplificati dai social. «Credo – spiega Russo – che negli ultimi anni, proprio a causa dell'avvento di centinaia di comunicatori improvvisati e di un marketing spicciolo mal camuffato da divulgazione, tutti stiano imparando a discernere e a usare i social come spunto per poi approfondire altrove la propria ricerca, appagando la propria curiosità attraverso canali più classici». Nel frattempo, molte cantine italiane mostrano ancora poca conoscenza dei mezzi, oltre a una reticenza rispetto diversi media a partire da tik tok. «Un errore comune è la mancanza di autenticità. Ciò che mi spiace è constatare l'annullamento della personalità del produttore e l’interazione diretta, reale e appassionata dei produttori stessi con il pubblico. Credo che i social non possano più essere visti come una mera vetrina e che necessitino di un coinvolgimento e un'esposizione maggiore di chi il vino lo fa, perché sono loro i veri influencer». Tra le denominazioni che si gioveranno delle influenze di oggi, Francesco Saverio cita il Mandrolisai in Sardegna, Lamole nel Chianti Classico, la Rufina nel Chianti. Nei discorsi di fondo, poi, c’è sempre l’Etna che ritorna costante nelle nostre interviste, sintesi perfetta del mutamento in atto: nel 2024 per la prima volta l’Etna Bianco pareggerà le bottiglie dell’Etna Rosso. Il divario era netto solo poche vendemmie fa. Prima di chiudere questo pezzo, stappiamo un rosso importante di 30 anni, un bordolese del 1994, annata tra l’altro tragica. Ci passa davanti un film dell’epoca: il ritmo gustativo è molto lento, scandito dalle pause, il montaggio è analogico. Sembra il vino di un’altra galassia. Sì, la velocità dei nostri tempi ha bucato il sughero ed è entrata prepotente in bottiglia.