Desertificazione al Sud, clima subtropicale nelle altre aree, spostamento della viticoltura verso Nord e verso l'alto, scomparsa dal 25% al 73% delle aree vitivinicole storiche entro il 2050. È il panorama, un po' apocalittico, che nei prossimi 30 anni potrebbe riguardare la viticoltura mondiale, come conseguenza dei cambiamenti climatici già in atto. Il tema, molto controverso, ha animato il Merano Wine Forum parte dal modello previsionale elaborato da Lee Hannh, climatologo di Conservation International Arlington in Virginia.
Lo studio di Lee Hannh
Secondo questo studio le regioni vitivinicole più importanti al mondo, dal Cile alla Toscana, dalla Borgogna all'Australia subiranno, nei prossimi anni, una drastica riduzione e saranno costrette, per sopravvivere, a trovare nuovi vitigni da impiantare. Mentre, allo stesso tempo, la vigna andrà incontro ad altre problematiche: da nuove malattie, a inondazioni ed erosioni dovute ad acquazzoni torrenziali (vedi danni nel Sannio delle scorse settimane), gelate in primavera e aumento della muffa. Interessante notare, in questo contesto di cambiamenti, come da diversi anni la pratica della viticoltura ha già raggiunto il 59esimo Nord longitudinale a Gvarv in Norvegia, praticamente in corrispondenza del paese di King Salomon nella fredda Alaska.
Le conseguenze dell'aumento delle temperature
Ma proviamo a capire meglio a che punto siamo e verso dove andremo. “Le temperature si stanno alzando, e le previsioni parlano di un grado/un grado e mezzo nei prossimi 30-50 anni” ci spiega l'enologo e agronomo Stefano Chioccioli “e di conseguenza la viticoltura si sposterà sempre più verso Nord in una sorta di traslazione. Nel giro di qualche decennio, se le aree del Sud soffriranno l'avanzare della desertificazione, altre zone del Nord potrebbero diventare più consone alla viticoltura: dall'Inghilterra, alla Polonia, dalla Bielorussia al Nord Africa. Mentre al Sud - dal Sudafrica, all'America Latina fino anche alla Sicilia - l'irrigazione necessaria arriverà fino a 6 mila metri cubi di acqua a ettaro. Allora sorgerà un problema etico: ha senso fare vino a fronte di un consumo così elevato di risorse idriche?Altra questione che potrebbe nascere dallo spostamento verso Nord è legato alle denominazioni: cosa succederebbe se il Sangiovese, il vitigno base del Chianti Classico, dovesse essere spostato altrove? Cambiare la denominazione? Il vitigno? Il luogo di produzione?”.
Ma attenzione, non si tratta di un caso senza precedenti. Se guardiamo alla storia, come ci illustra lo stesso Chioccioli, nel periodo medievale per circa 500 anni ci fu il cosiddetta 'Little Climatic Optimum': le temperature si alzarono talmente che la viticoltura si spostò verso l'Inghilterra. Successivamente, tra '500 e '800, si ebbe la 'Little Ice Age', questa piccola glaciazione fece compiere alla viticoltura il percorso inverso, spostando il fulcro verso la regione della Champagne.Nulla di nuovo quindi, se non fosse che i cambiamenti climatici di oggi, non sono naturali, ma frutto dell'industrializzazione e del conseguente effetto serra legato alla Co2.
I possibili interventi in vigna
Come prevenire le diverse conseguenze, prima che sia troppo tardi? “Prima di tutto” continua Chioccioli“bisogna iniziare a impiantare vitigni in questa nuova ottica, attraverso la scelta delle varietà più resistenti, il ritorno alle bassa densità, lo spostamento verso maggiori altitudini, il ricorso lì dove necessario all'irrigazione di soccorso, il mantenimento del suolo il più possibile naturale, tenendo presente che il cambiamento climatico porta alla riduzione delle sue sostanze organiche. Poi bisogna considerare tutto il contorno, quindi un ecosistema complesso che non contempli solo l'impianto di vigneti, ma anche di altre specie. Infine una gestione del verde intelligente, dalla legatura agli strati fogliari: se ora ce ne sono tre, portali a quattro/cinque in modo da creare la giusta zona d'ombra”.
Le operazioni preventive in cantina
Questo per quanto riguarda la vigna, ma cosa significa questo aumento di temperatura in cantina? E come limitarne le conseguenze? “Spostandoci in cantina non mancano né gli stravolgimenti, né le pratiche virtuose da seguire: nelle ultime vendemmie, sono arrivati mosti con minore quantità di amminoacidi e allo stesso tempo, nel caso dei rossi, con maggiore concentrazione di polifenoli (è quindi più “colorati”; ndr.). Entrambe cose che creano problemi alla fermentazione naturale. Per cui è indispensabile un'attenzione maggiore nel dosaggio dell'ossigeno e nel controllo delle temperature: più bassa è, meno il vino viene stressato. Di fronte a tutti questi cambiarti” conclude“compito di noi agronomi ed enologi è trovare le giuste soluzioni che sia in cantina, sia in vigneto, sono necessari a non stravolgere troppo la nostra viticoltura”.
Limitare i toni allarmistici
Dello stesso avviso l'enologo ed agronomo Gianni Menotti che, però, cerca di limitare il più possibile i toni allarmistici: “Il clima sta cambiando e lo vediamo: nel 2003 tutti ricorderanno la bolla di calore che ci accompagnò per tutta l'estate, così come dello scorso anno ricordiamo bene le piogge e l'umido che portarono ad una vendemmia non eccellente. Ma quest'anno le cose son tornate più o meno alla normalità. Questo perché si tratta di situazioni cicliche: non dobbiamo preoccuparci troppo”. Ma ovviamente la prevenzione è d'obbligo. Come? “Puntare il più possibile sulle varietà autoctone, ri-adottare pratiche antiche, penso ad esempio alla cimatura tardiva, proseguire nella direzione della ricerca sui vitigni resistenti. Per il resto non credo che spariranno delle varietà o che i cambiamenti climatici saranno la causa di nuove malattie. Di sicuro cambierà il vino: già quest'anno, per alcuni classici della produzione italiana, si è passati dai 13 ai 15 gradi, nonostante il mercato si muova nel senso inverso. Ma ricordiamo che la viticoltura esiste da 4 mila anni prima di Cristo e non finirà di certo adesso: l'uomo troverà il modo migliore per adattarsi e soprattutto far adattare la vite”.
Cercare nuove soluzioni
“L'allarmismoserve più che altro a stimolare il dibattito e trovare delle soluzioni” gli fa eco il consulente di FareCantine, Giacomo Mojoli, a cui sono state affidate le conclusioni della tavola rotonda “Credo che siamo arrivati un po' in ritardo su questo tema. Se tra 50 anni scompariranno davvero intere aree vitivinicole, come ci dice il modello previsionale americano, non possiamo saperlo, ma di sicuro i cambiamenti climatici ci stanno portando a confrontarci con nuove situazioni: dall'innalzamento del grado alcolico, alla perdita di acidità per i metodo classico, passando per la vendemmia anticipata. Questi sì, sono dei dati reali su cui riflettere e su cui confrontarsi con chi, magari, ha già adottato delle pratiche di prevenzione”.
Strategie operative
Il riferimento è a quelle realtà che, soprattutto nel Nord Italia, stanno – chi per prevenzione, chi per semplice intuito – spostando i vigenti a maggiori altitudini. Ad esempio c'è chi in Valtellina, in quest'ottica, ha impiantato lo Chardonnay a 800 metri di altezza, cosa impensabile fino a qualche anno fa. “Credo” continuaMojoli“che adesso la scommessa sia riportare la tematica con i piedi per terra. Non basta solo parlarne e spero che da questo dibattito vengano fuori delle linee guida per mettere in campo delle azioni: sarebbe utile, ad esempio, una mappatura delle aree vitivinicole. Obiettivo impensabile se non ci impegnano a far uscire la ricerca scientifica dalle Università e a dare le giuste informazioni ai consorzi e ai produttori, che il cambiamento climatico devono affrontarlo in prima persona”.
L'impossibilità di modelli climatici affidabili
“Attenzione a non creare allarmismi” questa è anche l'opinione di Daniele Izzo, meteorologo Centro Epson meteo. “Che le temperature a livello globale aumenteranno è innegabile, ma che tra 50 anni la viticoltura come la conosciamo oggi scomparirà, nessuno può saperlo”. Questo perché modelli climatici non sono così affidabili, soprattutto se riferiti a singole aree. Ma da cosa dipende questa impossibilità di fare previsioni precise? “Questo per almeno tre fattori: imperfezione della conoscenza del sistema clima; impossibilità di prevedere lo sviluppo socio-economico mondiale, a cui il cambiamento climatico è legato; imprevedibilità del feedback del pianeta al surriscaldamento: la reazione potrebbe anche essere opposta”. Di sicuro sappiamo che a partire dagli anni '50, con un'intensificazione negli ultimi trent'anni, le temperature sono aumentate molto velocemente e che si tratta di un'attività legata all'uomo e all'effetto serra. Quindi impegnarsi a ridurre le emissioni di Co2 è sicuramente una pratica da seguire. Il resto, anche la previsione sull'incremento dei gradi anno per anno, sono solo ipotesi”. Cosa succederà, quindi, alla viticoltura? “Probabilmente è coretto parlare di spostamento quantitativo e/o qualitativo verso Nord, ma ciò non significa che nelle aree del Sud la viticoltura scomparirà: potrebbe adattarsi o cambiare. Pensiamo alla Spagna: le temperature sono molto più alte rispetto al resto d'Europa, eppure questo non ha impedito di raggiungere picchi di eccellenza”.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 5 novembre
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