Era fine febbraio dello scorso anno, quando l’Italia poteva finalmente festeggiare il suo primo Master of Wine, il 418esimo della storia del prestigioso Istituto inglese. Gabriele Gorelli, wine expert e designer, con le radici saldamente affondate a Montalcino, conquistava il tanto ambito titolo che mai nessuno era riuscito a portare dentro i confini nazionali. Un percorso a ostacoli che solo un runner come lui, abituato ai tornati di Montalcino e alle corse in mezzo ai filari, poteva affrontare con la determinazione dei suoi trent’anni (oggi ne ha 38). Il coronamento di un sogno che, a causa del Covid, ha fatto slittare di un anno la cerimonia ufficiale, che si è tenuta solo lo scorso 23 marzo (vedi foto), ma anche l’inizio di un nuovo percorso. Cosa è successo in questi 14 mesi? Cosa è cambiato nella vita lavorativa di questo nuovo “maestro del vino”? E soprattutto, questo titolo ha influito anche sulla percezione dell’Italia all’estero?
Ne abbiamo parlato proprio con Gabriele Gorelli che, nelle prossime settimane, sarà uno dei docenti della Summer School Sanguis Jovis (11-15 luglio) della Fondazione Banfi, di cui è brand ambassador.
Gabriele, proviamo a fare un bilancio di questo anno da Master of Wine.
È stato un anno che è volato ma che mi ha letteralmente cambiato la vita. Oggi posso dire di divertirmi facendo solo quello che ho sempre voluto fare. In mezzo ho anche preso decisioni importanti, come ad esempio uscire dalla Brookshaw&Gorelli (agenzia di design specializzata in comunicazione visiva di vini; ndr), che avevo fondato 17 anni fa, ma che ormai non era più compatibile con la mia attuale attività.
Qual è stato il tuo primo incarico da Master of Wine?
Sono stato contattato per Bordeaux en Primeurs dello scorso anno dal team di Les Grand Chais de France. Devo dire che i francesi sono sempre molto attenti agli stimoli che vengono da fuori. E per me è stato bellissimo essere accolto negli Château e percepire la loro voglia di essere raccontati anche in Italia. Cosa che abbiamo fatto a maggio 2021 con la prima edizione dell’Anteprima di Bordeaux di Verona - quella che per me è la vera città italiana del vino - e ripetuto anche quest’anno, sempre in Veneto. Un format che piace e che può anche far avvicinare i giovani al vino e a questo tipo di esperienza di acquisto.
Se i francesi hanno subito colto la palla al volo, pensi che il nostro Paese abbia “fiutato” l’importanza di avere il suo primo Master of Wine italiano?
In parte sì: ho all’attivo diverse collaborazioni e consulenze sul territorio nazionale. Sono, invece, brand ambassador di due gruppi internazionali: Oeno Group, leader nel settore degli investimenti nei fine wine, e Vinventions, leader delle chiusure alternative per il vino. Per quanto riguarda l’Italia, sono contento di essere entrato a far parte della Fondazione Banfi di Montalcino: un “luogo” dove succedono cose belle e dove si sviluppano idee nuove. La vicinanza con la comunità degli studenti è sempre stimolante ed è proprio vicino a loro che voglio restare. Nella prossima edizione della Summer School, mi occuperò di Sangiovese prodotto all’estero, analizzando i diversi approcci: da quello australiano a quello californiano.
Incarichi a livello istituzionale?
Dal lato istituzionale, in questi mesi, ho avuto diversi incontri, ma ancora nessun progetto concreto. Per quanto mi riguarda sarei felicissimo di essere la voce e il volto dell’Italia del vino all’estero.
In attesa degli eventi, possiamo dire che, con la tua “investitura”, è cambiata la percezione dell’Italia vitivinicola nel mondo?
Sicuramente oggi l’Italia ha un’esposizione maggiore. E questa è la cosa che mi rende più felice e orgoglioso. Non perché la viticoltura italiana prima non fosse considerata, ma perché adesso è come se nella grande comunità dei MW ci fosse un riferimento interno. Per qualunque richiesta, sanno chi chiamare. Siamo tutte persone che parlano la stessa lingua e che hanno affrontato insieme lo stesso percorso.
Da italiano e da Master of Wine, qual è la tua percezione: oggi l’Italia e il suo vino piacciono all’estero?
Non solo piacciono, ma piace proprio l’italianità, il nostro modo di fare. Faccio un esempio. Qualche mese fa mi ha contattato un’agenzia della Napa Valley per chiedermi di organizzare un incoming proprio a Napa. Hanno 53 MW in Usa e lo chiedono proprio a un italiano: incredibile, no? Credo che questo dimostri la grande stima che nutrono nel nostro modo di essere e di fare.
Questa stima si traduce anche in termini di scelta di prodotto?
In gran parte sì. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno ancora tanto potenziale da esprimere. Pensiamo solo al numero della popolazione e al grado di maturità raggiunto in fatto di consumi di vino. Senza dimenticare che Oltreoceano, l’immagine del nostro Paese e del nostro stile di vita è fortissima: chi beve italiano è perché vorrebbero fare l’italiano. A volte siamo fin troppo critici con noi stessi e non vediamo quello che rappresentiamo all’estero.
Come si vince oggi la sfida con la concorrenza?
La sfida la vince chi riesce a posizionarsi lì dove il mercato riconosce valore, grazie a una brand identity chiara. E molti vini italiani hanno già questa identità, altri la stanno costruendo.
È sempre questione di comunicazione, dunque?
In larga parte. L’obiettivo sarebbe riuscire a ritagliare per ognuna delle nostre regioni un diverso tenore comunicativo. Paradossalmente Montalcino ci è riuscita senza comunicare. Per anni ha utilizzato il metodo di chiudersi, lasciando che gli altri parlassero del Brunello. Un po’ quello che è il metodo Borgogna. In questo modo, però, ha creato la sua identità e ha attirato i consumatori di tutto il mondo verso di sé. Ma è riuscita a farlo perché attorno aveva tutto un territorio solido e dei vini di altissimo livello. Oggi sta rinnovando il proprio messaggio, cercando di dare un’immagine più giovane che attiri anche una platea diversa di consumatori. Penso ad esempio alla prima edizione di Red Montalcino degli scorsi giorni.
Qual è, quindi, la ricetta da utilizzare per trasmettere l’italianità dei nostri vini nel mondo?
Non c’è una ricetta valida per tutti. Per esempio, Barolo e Barbaresco hanno puntato sulla zonazione e sulle menzioni geografiche aggiuntive, ma non significa che tutte le altre denominazioni debbano fare la stessa cosa. Se dovessi pensare all’identità dell’Abruzzo non la ritroverei nella zonazione, ma nel colore unico del suo Cerasuolo. Anzi, quando un giorno non lo si chiamerà più semplicemente rosato, ma rosso d’estate, allora avremo fornito quel giusto appeal che il mercato si aspetta.
A proposito di rosati e nuovi trend di mercato, dove credi che l’Italia debba costruire il proprio futuro?
Sicuramente siamo stati dei first mover sulle bollicine, anche se polarizzati su un’unica Doc che è quella del Prosecco. Denominazione che, per inciso, oggi rappresenta una case history impressionante, dalla quale non si può prescindere. In futuro, vedo da percorrere la strada delle Rive di Conegliano Valdobbiadene, che rappresentano la migliore espressione del territorio. Allargando ad altre tipologie, credo che l’occasione oggi ce la giochiamo sui bianchi. Se non riescono a venir fuori in tutte le loro espressioni e a imporsi sul mercato, rischiamo di essere cannibalizzati dai bianchi esteri. E questo non ce lo meritiamo.
Prova a immaginarti tra dieci anni: come ti vedi?
Non troppo diverso da oggi, se non con un maggior numero di esperienze. E, poi, non mi vedo più ‘solo e unico’, ma circondato da una pletora di MW italiani con cui poter fare sviluppare insieme una serie di progetti e consulenze di altissimo livello.
A proposito, chi sono i papabili MW italiani più vicini al titolo?
Pietro Russo (Donnafugata) e Andrea Lonardi (Bertani Doamins), che potrebbero conseguire il titolo tra il 2023 e il 2024. Con loro ho condiviso gran parte del percorso, studiando insieme. E proprio su questo abbiamo già un progetto in divenire…
Qualche anticipazione?
Come dicevo abbiamo condiviso tante esperienze, trovandoci in un ambiente – quello dell’Istituto MW - quasi ostile, ma riuscendo a trovare comunque un nostro stile. Abbiamo, quindi, deciso di raccontare questa “italian way” in un libro, all’interno della collana Jumpo Shrimp di Stevie Kim. Il messaggio che vogliamo veicolare è che insieme si può.
Riavvolgiamo il nastro e ritorniamo a 14 mesi fa. Cosa ha significato avere avuto accesso al titolo di MW?
Sicuramente non mi sento, e non mi sono mai sentito, arrivato. Il titolo è un viatico per crescere ancora di più.
Se l’orizzonte è il mondo intero, il quartier generale è rimasto e rimarrà sempre Montalcino?
Montalcino è un punto fermo, la mia base. Oltre a rappresentare una sorta di messaggio: ce l’ho fatta ma non vado via. E non lo avrei fatto anche se mi fossi trovato in una Montalcino diversa da quella del 2022, senza il livello di vini e di notorietà a cui è arrivata. Preferisco di rendere migliore il posto dove abito, invece di andare ad abitare in un posto migliore.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è stato pubblicato sul Settimanale Tre Bicchieri del 16 giugno 2022
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