"Farinetti? Basta polemiche sui vini naturali. Puzzano se puzza chi li fa". Intervista al vignaiolo Luigi Tecce

12 Lug 2024, 08:16 | a cura di
Il produttore campano replica a Oscar Farinetti che ha definito "fascista" il termine naturale: "Il vino è un alimento, mettiamo gli ingredienti in etichetta. E alziamo il livello della discussione"

«Senti, possiamo parlare solo se ci sediamo faccia a faccia e dialoghiamo! Mi sono stufato di alimentare polemiche e diatribe senza senso». Sembra finire qui, subito, il tentativo di intervistare Luigi Tecce sul tema dei “naturali” – parliamo di vini, ovviamente – e se abbia o meno ragione Farinetti a dire che i “produttori naturali” sono fascisti e ad additarli come i “fighetti del vino naturale”, che è buono solo il loro e tutto il resto fa schifo. Tecce non ci sta. «Ma io sono un contadino, un viticoltore. Puoi chiamare Sgarbi per fargli commentare Farinetti. Cosa importa a me di commentare la sua uscita? Io voglio parlare di me, dei miei vini, della mia storia. E voglio costruire i miei pensieri, non criticare quelli degli altri. Ecco, forse potremmo partire da qui, dal fatto che per parlare occorre avere un pensiero con un senso e il senso è dentro di te, deve essere un pensiero frutto di elaborazione, di riflessione, di tempo!»

Luigi Tecce

"I miei vini non puzzano"

Va bene il pensiero. Ma partiamo da una considerazione terra terra: c’è chi accusa i vini naturali di puzzare. È così? È vero? «Io non faccio vini che puzzano. Pensa che lo scorso anno a Tokyo ho fatto fatica a convincere i giapponesi che i miei sono “vini naturali”, secondo i loro schemi, anche se non puzzano. Mi chiedevano: ma perché non puzzano? Ecco. Io dico che i vini puzzano se puzza chi li fa. I “vini naturali” sono dei vini e il vino si divide in vino fatto bene e vino fatto male. Questo direi a Farinetti. Il quale, per altro, si contraddice pure perché dice che i “produttori naturali” sono fighetti e fascisti e poi invece dice che gli piace il vino artigianale. Cosa vuol dire oggi “fascista”, ha senso usare questo termine? Forse voleva dire “integralisti”? Magari in parte ha anche ragione...».

Cambiare nome? "Ingredienti in etichetta"

Ma come uscire dunque dalla diatriba? Quale nuovo nome possiamo coniare per i vini che oggi chiamiamo naturali? «Io direi che mi interessa poco il nome. Mi interessa la sostanza. Una delle cose su cui discutiamo di più con Hisato Ota, uno dei più importanti del mondo dei “naturali” in Giappone, è proprio sul termine “naturale”. Il vino è fatto dall’uomo. Non dalla natura, è un prodotto dell’uomo. Quindi non mi piace dire – "per facilitare la comunicazione", spiega Isato – che i vini naturali sono figli della natura. Vogliamo chiamarli “senza chimica”? Perché anche chiamarli artigianali non ha senso: ci sono artigiani che nei panettoni usano più chimica di quanto faccia un’industria. Lo sapete bene anche voi. Poi, dice Isato, che ai giapponesi che non hanno una tradizione e una esperienza profonda sul vino, interessano le storie che ci sono dietro al vino. Ecco, io in bottiglia ci metto la mia storia».

E quindi? Come chiamare i vini senza chimica? Perché alla fine anche la chimica è attività sia naturale che umana… «C’è un solo modo: considerare il vino per prima cosa un alimento, poi il prodotto di un percorso storico-culturale della storia umana e infine anche un prodotto che dà emozioni e sensazioni gustative in cui puoi trovare il gelsomino, la violetta o la frutta rossa. Ma la prima cosa è considerare il vino come un alimento e sancire l’obbligo, come per gli alimenti, di specificare in etichetta quello che c’è dentro. Poi uno sceglie: sia in base agli ingredienti, sia in base al proprio gusto. Ma se non si parte da qui, non ha alcun senso inventarsi un nome. A me non interessa. Sai che in etichetta non puoi scrivere la parola “vino”? Lo puoi scrivere solo se è un “vino da tavola”. Se sei in una denominazione geografica non puoi farlo. Ripartiamo da qui».

La "crisi" del Taurasi

Invece, cosa ha da dire Luigi Tecce sul Taurasi? Lui è uscito anni fa dal Consorzio. Perché? E perché oggi questa denominazione fondata sull’aglianico è in crisi? «Ma questa è retorica! – sorride lui – Il Taurasi mi sembra in crisi da sempre, di certo non è mai esploso. Io sono uscito dalla denominazione perché non volevo sottostare al carrozzone accademico-politico dell’agroqualità. Lì i vini devono essere come qualcuno pretende che siano. Ci sono i dottorini che stabiliscono disciplinari e caratteristiche precise. Ma il vino, dicevo, è anche storia e cultura di chi lo fa. Io in bottiglia ci metto la mia storia, quarta generazione di contadini. In etichetta c’è il mio nome che ha i caratteri più grandi, poi il nome del vino e infine, piccola piccola, c’era la denominazione. Ecco, ho deciso di togliere quella».
Qualche consiglio da dare ai colleghi che invece nel Consorzio ci sono rimasti? «Ma no, non è possibile – risponde Tecce – Io me ne sono andato. Chi se ne va non può dare consigli, può farlo solo chi rimane».

Come addomesticare l'Aglianico?

Ma c’è un problema legato all’Aglianico? Troppo tannico e potente rispetto al gusto di oggi? «Qualche tempo fa il critico di vino americano Tom Hyland, seduto qui davanti a me, mi chiese come fare per addomesticare l’aglianico, la sua potenza, i suoi tannini. Io gli risposi che non avevo mai avuto difficoltà con l’aglianico. Certo, prima di uscire le mie bottiglie passano anni e anni dalla vendemmia. E cito l’esempio dei cavallari di oggi: pensano che per addomesticare un cavallo basti dargli una zolletta di zucchero. Ma non funziona. Ecco, non funziona neppure per il vino metterci lo zuccherino. Purtroppo ormai i dottorini hanno deciso che per “addomesticare” l’Aglianico basta usare le bustine, la chimica. Ma non è così. La mia storia, i miei vini lo testimoniano».

"Il vino deve essere considerato un alimento"

Ma come uscire da questa impasse? Cosa fare? «Io, per conto mio, mi sarei anche scocciato di fare vino – sorride – Ma non vedete che se da una parte il vino è cambiato e cresciuto negli ultimi vent’anni, non si è invece cresciuta di un millimetro la discussione? Ma può essere un argomento dirimente l’uso dei solfiti? Io oggi, con una bilancia elettronica, posso dosarli in maniera ottimale, senza nessun danno per nessuno. Ha senso indicare i solfiti come linea di confine tra naturale e convenzionale? Il problema è che i fighetti sono sia da una parte (come dottorini accademici) che dall'altra (come barbuti integralisti). Hai presente la metafora della campana? Suona solo se il batocchio batte da una parte o dall'altra, fa un suono assordante. Al centro non suona. Forse è il caso invece di cercare un centro, una sostanza e non solo il rumore. Non vogliamo fare qualche passetto avanti? Se si continua così, tra un po’ a nessuno interesserà più nulla di queste cose. Ripartiamo dal pensiero, dalle riflessioni sulla sostanza. Hai presente i capponi che Renzo Tramaglino porta all’azzeccagarbugli? Li tiene appesi per le zampe e i due animali di fronte si beccano tra loro. Io non voglio beccare in faccia nessuno. Io voglio poter esprimere il mio pensiero dopo essermelo costruito e confrontarmi, sì, non beccarmi. Perché, ripeto, a forza di beccarsi si finisce in tegame, come i capponi. Non si va da nessun’altra parte».

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