Federico Curtaz è un personaggio insolito nel mondo del vino. Agronomo ed enologo, non ama la luce dei riflettori. Ha un carattere riservato, da vero montanaro, un tratto romantico e una certa schiettezza. Valdostano, dal 1983 al 1997 ha contribuito non poco alla crescita dei vini di Angelo Gaja, per poi mettersi in proprio. Sul vulcano è arrivato nel 2005, da allora ne è innamorato. E con l'Etna Bianco A'Puddara (Tenuta di Fessina) e poi Gamma e Kudos (Azienda Agricola Federico Curtaz) ha costruito un modello di riferimento.
Si può dire tutto, ma di certo non ci si annoia sul vulcano.
L’Etna è come un tifone, gira su di sé e tira fuori sempre nomi nuovi.
Vista da fuori, però, si fa fatica a vedere una strada comune.
Non c’è. Siamo come in un periodo pre-barolo boys. I vari Gaja e Conterno avevano creato un presupposto, si inseguiva una qualità assoluta con strumenti, conoscenza, relazioni importanti. Se sei in gruppo, è più facile. Oggi sull’Etna ci sono tre iniziative pubbliche (Etna Days, Le Contrade dell’Etna e Piccolo è Bello) che non si parlano. Manca una regia, questo comincia a essere un problema per chi guarda da fuori.
Oggi è più facile bere Etna a New York o Hong Kong che a Roma o Milano. Perché?
L’Italia ha una proposta vini piuttosto regionalizzata, questo messaggio del bere locale che avete costruito anche voi giornalisti. All’estero questo non esiste, bevono le cose che incuriosiscono. E l’Etna è una straordinario elemento di curiosità affascinante. Riempie di cenere un quarto della Sicilia e lo sa tutto il mondo, si fa pubblicità da sola. Ed è in linea con il gusto attuale, l’Etna ha vini freschi, acidi, leggeri nella bevuta. E una dimensione tannica gentile con una spezia che non trovi altrove.
Qual è stato il riscontro del successo internazionale sul territorio?
Ha portato più turismo, voglia d’investire, e un certo ritorno degli etnei a fare vino. Oggi ci sono tanti ragazzi locali che ci stanno provando, con i loro pregi e difetti. E’ molto forte una spinta sulla naturalità, ma con una certa confusione, senza un contradditorio scientifico. Sorrido quando mi dicono che il vino in acciaio o in anfora è più naturale che in legno, uno strumento utilizzato da duemila anni. Oggi sull'Etna se non hai l’anfora sei out. Però poi ti ritrovi tanti vini che non sanno di Etna, manca una verifica tra noi produttori.
Cosa non si è ancora pienamente capito del vino etneo?
La localizzazione dei vitigni, rischiamo di essere altoatesini. Per esempio il Carricante lo trovi da Santa Maria di Licodia a Randazzo, senza aver preso in considerazione il luogo, la situazione climatica. In Borgogna hanno ben capito dove piantare chardonnay e dove pinot nero.
Da 18 anni fa vino sull’Etna, l’entusiasmo è intatto?
Sì, l’Etna è un meraviglioso palcoscenico sui cui puoi recitare delle cose importanti, dove c’è ancora tanto da scoprire. Ha dei vitigni di cui si sa ancora troppo poco, per esempio la vinificazione del nerello mascalese ha bisogno ancora di approfondimenti importanti. Il compito è capire il rapporto tra questi vitigni, come svilupparli in una direzione, comprendere il grado d’invecchiamento dei vini, che è più alto sui bianchi che sui rossi.
Cosa c’è di non ancora espresso?
Deve crescere ancora il livello della coltivazione, vedo ancora carichi di uva un po’ alti e situazioni che vanno migliorate. C’è un bisogno enorme di specializzazione. In questo momento tante aziende stanno facendo i propri vigneti e anche se il messaggio di Salvo Foti sull’alberello è stato importante, vedo che si sta passando al sistema della spalliera.
A proposito di specializzazione, lei l'ha fatto con l’Etna bianco.
Io mi diverto a produrre le mie 30mila bottiglie, m’interessa continuare questa esplorazione, come associare la qualità dell’uva alla qualità della vinificazione. Sul Bianco sto consolidando la mia gestione del legno che mi stando risposte.
L’anima bianca del vulcano sembra più austera del rosso.
L’Etna è uno spartito, un’opera scritta, certe note più alte e più basse le puoi forzare dentro un’esecuzione. Mi è sempre piaciuto dare il centro del vino con i vigneti dell’Etna sud. L’ unico che aveva capito questo è stato Benanti, io l’ho ripreso 10 anni dopo. Gli Etna Bianco Pietramarina ‘95, ‘96 o ‘97 erano semplicemente straordinari e li dobbiamo ringraziare per questo. Dieci anni dopo (per produrre A’ Puddara con Tenuta di Fessina, ndr) sono ripartito con la stessa concezione: vigneto del sud cui ho aggiunto l’anima acida di Milo. Così ho sviluppato la mia sensibilità. L’unico gesto di coraggio è stato proporre vini 100% in legno.
Che ne pensa dell’Etna Spumante?
Ci sono valori straordinari, anche lì dobbiamo aspettarci un’evoluzione in termini di comprensione, da dove arrivano le uve, quali altitudini? A livello di ph, acidità e grado di maturazione sul nerello mascalese c’è una verità. Va ancora verificata, quanta strada ancora da fare.
Il ruolo dell’enologo è sempre più in discussione.
Beh, quello di voi giornalisti anche di più. Io non ho il tocco enologico di altri, cerco solo di restituire una trasparenza al messaggio luogo-uva-vino, come quando sei in casa e vedi fuori un paesaggio. Noi siamo strumentali al vino, il vino non può essere uno strumento per dimostrare chi siamo.
E ritorniamo sullo stile etneo.
L’Etna deve convergere possibilmente su uno stile. Tutte le grandi zone trovano una strada diffusa, una codifica, senza pregiudizi tra moderno, antico o naturale. L’Etna ha bisogno di trovare la sua strada. Siamo ancora in un fase adolescenziale, come dicevo, ci sono personaggi importanti che possono dire tante cose, anche il filtro giornalistico deve fare la sua parte critica. La riflessione è indispensabile oggi. E magari ripensiamo anche il disciplinare, l'Etna Bianco da sole uve carricante per esempio.
Si parla tanto di vigna pre-filossera a livello di comunicazione?
Vero, ma c’è n’è poca, poca, rispetto ai vini in commercio. Oggi comunicare che fai vino in anfora te lo fa venire duro, come pre-fillossera, ma si mistifica anche. Io sono convinto che l’Etna sia tra le 15 grandi zoni mondiali per fare vino, ma ci vuole una presa di coscienza.
Un confronto collettivo?
Tutti vogliono avere successo personale ma bisogna far respirare il territorio tutti insieme, una comunità che ha l’idea di dove andare, che abbia un pensiero importante. Deve cambiare il messaggio intorno al vulcano: da mi fa comodo parlarne a mi fa piacere bere. C’è un po’ di confusione dettata dall’entusiasmo, quest’idea di laboratorio a cielo aperto, con tanti ingredienti che sono le persone, genera segnali ma non una pista. Vedo ancora un po’ di foschia prima del traguardo.
Un fascino che ha finito per oscurare il resto della Sicilia
A 3.000 metri fare ombra intorno è semplice. Ci sono zone importanti in tutta l’isola, penso al Mamertino che può crescere, ha dei suoli fantascientifici vini molto interessanti. Anche se lì i disciplinari sembrano essere scritti da un coltivatore di ortaggi. D’altronde dove i romani hanno fondato la viticoltura non non hanno sbagliato mai. E a Mamertino avevano un porto.
E il Marsala?
Ahimè, oggi è una perdita secca. Fa parte della cultura di un popolo, di un sentire. Ma chi investe oggi per produrre un Marsala di 30 anni? Nessuno.
Un sogno rimasto nel cassetto?
Fare un nebbiolo in Val d’Aosta dove sono nato. Mi bastano tre barrique. Per me e per gli amici.