L'Unesco ha inserito l'Etna nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità definendolo come uno dei vulcani “più emblematici e attivi del mondo”. A Muntagna ha conquistato il riconoscimento grazie soprattutto a una storia documentata di vulcanismo lunga 2500 anni e che l’organo delle Nazioni Unite ha scelto proprio per “la sua importanza scientifica, i suoi valori culturali e pedagogici”. Ma l’Etna è anche un luogo abitato e un territorio produttivo, intorno al quale gira un’economia fatta spesso di eccellenze enogastronomiche, vino in primis. Può un risultato del genere avere una ricaduta positiva su quest’economia? E se sì, in che modo? E c’è il rischio invece che i criteri utilizzati per l’assegnazione possano trasformarsi in ostacoli?
“Questo riconoscimento è senza dubbio una bella cassa di risonanza” spiega al Gambero Rosso Giuseppe Mannino, presidente del Consorzio Etna Doc e proprietario delle Tenute Mannino “ma occorre saperlo gestire. A cominciare dalla rete stradale, dalla rete elettrica, da quella wireless. Qui le cose cambiano da un versante all’altro. Non c’è omogeneità. La stessa Provincia possiede diverse proprietà all’interno del Parco (Ente nato nel 1987, ndr), ma non ci fa nulla. Ecco, il mio timore è che certi vincoli ambientali e paesaggistici non tengano conto dell’aspetto produttivo di un territorio e che si abbia paura di intervenire, lasciando le cose così come sono”. Il vino ne sa qualcosa: spesso la costruzione di nuove cantine conosce diversi stop proprio a causa dei vincoli paesaggistici e anche l’utilizzo di materiale locale – tipo la pietra lavica – è piuttosto complicato. Le regole del Parco ad esempio non consentono la realizzazione di locali interrati. “E poi ci sono diverse velocità”continua Mannino “sul versante Nord, dove sono arrivati viticoltori anche da fuori l’economia è cresciuta e, di conseguenza, anche il valore fondiario dei terreni. Nel 2002 un ettaro in zona costava sui 12mila euro, oggi si è arrivati a 80mila. Forse troppo, soprattutto se rapportato al prezzo delle bottiglie in vendita di Etna Doc. Questa crescita repentina dei vigneti, come delle aziende, senza una corrispondenza al valore del vino, ha comportato grosse giacenze in cantina. Negli anni ci siamo persi poi anche gi introiti dello sfuso, che ha sempre rappresentato un mercato florido”.
Insomma, c’è da rimettere in asse tradizione e voglia di crescere, sfruttando al meglio anche la grande popolarità che da anni il marchio ‘Etna’ riscuote all’estero. “Siamo così convinti dell’appeal del nome Etna”conclude il presidente del Consorzio “che stiamo rimettendo mano al disciplinare: abbiamo bisogno di più tutele che, al momento, la Doc Sicilia non ci garantisce. Dobbiamo salvaguardare le nostre tecniche di produzione, i piccoli produttori e i nostri vitigni autoctoni. E vogliamo andare nel mondo con il brand ‘Etna’, che già in etichetta scriviamo prima del termine ‘Sicilia’. Nella Doc Sicilia c’è dentro di tutto e questo non ci va”.
Etneo doc, enologo e produttore è Salvo Foti, che non può che dirsi felice di questo riconoscimento: “come produttore di vino mi fa sentire due volte responsabile, perché mio dovere è preservare e farmi custode di un patrimonio. Finora le cose non sono andate esattamente così. Chi fa vini sull’Etna - categoria diversa da chi fa vini etnei – sfrutta la notorietà del nome, adotta principi agronomici e tecniche di cantina invasivi, fa uso eccessivo della meccanizzazione dando il colpo di grazia alla già scarsa manodopera specializzata. Per fare meglio domani, invece, bisogna guardarsi alle spalle, continuare a costruire terrazze come un tempo, l’unico modo per tenere su un terreno incoerente come quello vulcanico fatto di sabbie e contrastare il dilavamento causato dalle piogge, molto più frequenti sull’Etna che nel resto dell’isola. Mi creda, le mode passano, oggi è l’Etna, domani potrebbe essere una’altra zona, ma il miglior ingrediente del vino è l’onestà di chi lo produce”.
Michele Faro fa il vino sul versante Nord, a Solicchiata con l’azienda Pietradolce.“15 anni fa da queste parti - Castiglione di Sicilia, Passopisciaro, Randazzo - non ci capitava nessuno se non per caso, oggi ci sono B&B, piccoli ristoranti, un indotto vero creato dalla presenza di diverse cantine e sono tanti i giovani che rimangono, invece di scegliere Catania. Resta da fare ancora tanto sui servizi, penso alle strade del vino, agli itinerari, ma anche ai collegamenti tra i nostri paesini e il centro città”.
Si chiama Sciara Nuova, è l’azienda etnea dei Planeta, 16 ettari a Passopisciaro e un palmento dell’800 appena restaurato. E anche diversi problemi, come ci racconta Alessio Planeta: “Trovo questo riconoscimento straordinario, ma la domanda è: servirà? Se penso ad altri siti Unesco in Sicilia come le necropoli di Pantalica, la risposta è no. La nomina è la scintilla, il resto dobbiamo farlo noi e fare sull’Etna significa riconoscere al vulcano la sua vocazione agricola. Io come agricoltore il territorio lo rispetto, però a Passopisciaro la raccolta rifiuti è ferma, l’Ente Parco non vigila e intorno a me vedo diverse villette di recente costruzione. Credo nel turismo enologico in zona, ma va reinventato. Ora il target è ancora basso, guardo al ‘modello Piemonte’, se loro hanno Barolo e tartufi, noi abbiamo Taormina ad appena 25 chilometri…”.
foto Alessandro Saffo
a cura di Francesca Ciancio