Giacomo Tachis è stato una delle figure più rappresentative del rinascimento enologico italiano. Nato a Poirino, in provincia di Torino, ottantadue anni fa, è stato allievo del grande enologo francese Emile Peynaud. Dopo gli studi alla Scuola di Enologia di Alba e le prime esperienze professionali, nel 1961, Tachis approdò alla casa vinicola Marchesi Antinori dove è rimasto per 32 anni come direttore. Ha “aiutato a nascere” i più importanti vini italiani degli ultimi cinquant’anni. Qualche nome? Il Sassicaia, il Tignanello, il Solaia, il Turriga. Nel 1999 l’Università di Pisa, dove insegnava enologia, gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze e tecnologie agrarie. È stato consulente dell’Istituto regionale della vite e del vino di Palermo e di diverse aziende viticole, sia private che cooperative. Bibliofilo di vaglia, amante della storia e delle vicende dell’agricoltura, ha una ricca collezione di antichi testi di vitivinicoltura. Sono entrato in contatto con lui alla fine degli anni Ottanta e da quel momento, sino al suo ritiro, abbiamo mantenuto dei rapporti di stima e di amicizia. Lui si è sempre definito “un mescolavino” ma in realtà è stato un maestro per tantissimi enologi ma anche per altrettanti giornalisti. I funerali si terranno a San Casciano Val di Pesa, lunedì 8 febbraio alle ore 15, nella Chiesa di Santa Maria ad Argiano, località Bardella. Ad Ilaria e a tutta la famiglia Tachis va il nostro sentito cordoglio.
Il testo è un mio articolo pubblicato sul sito Wine Surf nel 2011 in occasione della nomina di Tachis Man of the Year da parte della rivista Decanter. Ringrazio Carlo Macchi per l’autorizzazione alla pubblicazione. L'articolo è vecchio di qualche anno, ma è perfetto per ricordare l'importanza dell'uomo e del professionista che è venuto a mancare in queste ore.
Lo scorso 28 Febbraio Giacomo Tachis è stato nominato Decanter Man of the Year 2011. Un premio importante da una rivista che ha conquistato sul campo credibilità e prestigio, anche al di fuori del mondo strettamente anglosassone, e che si avvale di collaboratori, giornalisti e scrittori di vino, di grande richiamo. Decanter ha istituito il riconoscimento nel 1984 per onorare i personaggi che con il loro lavoro hanno segnato il mondo del vino dei rispettivi paesi d’origine. Trattandosi di scelte assolute, seppur frutto di un lavoro di squadra, come tutte le scelte sono opinabili ma non per questo meno indicative di una tendenza.
E’ la terza volta che la rivista inglese sceglie un italiano, dopo Piero Antinori e Angelo Gaja. In questi 27 anni, i francesi hanno ottenuto il riconoscimento 10 volte, gli australiani, i britannici e i californiani 3, gli spagnoli 2 e poi 1 volta ciascuno per tedeschi, argentini, libanesi e austriaci. Insomma una visione del mondo del vino che potrà non essere condivisa ma questa è, e solo con questa bisogna confrontarsi.
Personalmente sono stato molto contento che il vino italiano, attraverso “Mino” Tachis, abbia ottenuto questo onore. Intanto perché – e non è poco - mette il vino italiano almeno sullo stesso piano (sic) degli australiani e dei californiani... ma battute a parte, soprattutto perché individua molto correttamente il ruolo che Tachis ha avuto in un periodo molto particolare e decisivo della nostra recente storia, gli anni Settanta e Ottanta. Nel corso di questi venti anni infatti si sono poste le basi per la rinascita del nostro vino dopo un lungo periodo di buio in cui sostanzialmente non si era compreso che la proposta italiana ormai non aveva più spazio in un mondo che richiedeva vini di tutt’altra levatura rispetto ai Chianti col “governo” e ai Baroli che puzzavano di “merdino”.
La nascita del Sassicaia, del Tignanello e del Solaia, di cui Tachis fu levatore, furono a livello internazionale un segnale che le cose erano cambiate. E non a caso il primo italiano Decanter Man of the Year 1986 fu Piero Antinori - proprio il produttore di due di quei tre vini entrati nella storia - a cui seguì, qualche anno più tardi (1998), Angelo Gaja, anch’esso non proprio simpatico ad alcuni.
Nel caso di Tachis credo che ad essere valutato sia stato il complesso della sua attività non solo come enologo ma anche di consulente strategico che ha sprovincializzato non poco il settore. Il suo contributo alla rinascita e alla qualificazione del vino siciliano, e in particolare all’elaborazione del Nero d’Avola, è stato fondamentale così come non si può dimenticare la sua opera di rivalutazione dei vini del sud della Sardegna, in primis il carignano, a cui ha dato lustro e visibilità.
Infine voglio ricordarlo tra i pochissimi – insieme al prof. Mario Fregoni- che hanno sostenuto con passione la battaglia della vitivinicoltura insulare. Ma i campi su cui ha spaziato sono davvero tanti – il Vin Santo per esempio di cui è stato uno studioso attento e propositivo- lasciando sempre tracce importanti. Insomma davvero “ the father of Italian wine” come lo ha descritto Decanter.
Per questo mi hanno colpito – ma non più di tanto– le polemiche che la nomina ha suscitato in taluni gruppi di commentatori. Ma non tanto per quanto hanno sostenuto - è loro pieno diritto pontificare su Tachis e il sangiovese, Tachis e i supertuscan, Tachis e i vitigni migliorativi, ecc.ecc.- quanto perché è davvero diventato difficile costruire una memoria condivisa anche sulla nostra recente storia. Come già è successo nel caso del dibattito sulla memoria condivisa di Veronelli su Intravino – commenti davvero incresciosi se non offensivi visto che l’interessato oltretutto non può nemmeno rispondere per le rime – c’è un’oggettiva difficoltà ad uscire dal proprio “particulare” e proiettarsi su una visuale più ampia. A prevalere anche questa volta sono gli orizzonti limitati, un provincialismo di maniera incapace di valutare l’importanza che il premio sia andato ad un italiano e non ad un personaggio di un altro paese. La verità è che non potendo sostenere che lo staff di Decanter non capisce un tubo hanno spostato il problema sul premiato che, debbo dire con una certa soddisfazione, se ne fotte allegramente. Una cosa è certa, di Tachis si parlerà ancora mentre dubito che alcuni suoi critici diventino mai “man” di alcunché.
a cura di Andrea Gabbrielli