A volte accade che piccole realtà locali si trovino d’improvviso in sintonia con i cambiamenti globali. È quanto sta accadendo al Rossese di Dolceacqua, un vino che interpreta molto bene l’idea contemporanea di rosso. Nei principali Paesi europei è ormai chiara la tendenza verso un cambiamento di gusto e di abitudini: uno stile di vita dinamico, con trend alimentari più destrutturati, si concretizza in un consumo di cibo e di vino soprattutto al momento dell’aperitivo o in occasioni informali. A questo mutamento sociale, si somma una tendenza generale a preferire vini meno ricchi e concentrati. I rossi potenti segnano il passo in favore di vini più eleganti, freschi e fragranti. Il nuovo modo di concepire il vino riporta alla memoria le Lezioni americane di Italo Calvino.
Nella prima lezione del suo celebre saggio, dedicata al tema della leggerezza, lo scrittore contrappone i concetti di leggerezza e peso, sostenendo le ragioni della prima. Le sue parole potrebbero essere facilmente declinate al mondo del vino: “la mia operazione è stata il più della volte una sottrazione di peso… ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”; “sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto”. Frasi che descrivono perfettamente una nouvelle vague che abbandona il peso della densità in favore di una “rarefatta consistenza”. Togliere “peso” al vino vuol dire sia alleggerire le estrazioni e l’uso di legni invadenti, sia privilegiare i vitigni meno materici, più diafani e lievi. Il risultato è un rosso capace di conquistare con raffinate e delicate sfaccettature aromatiche, con una scorrevole leggerezza, proprio come il Rossese di Dolceacqua.
Un rosso tra i monti e il mare
Terra accartocciata su sé stessa per non cadere in mare, la Liguria non conosce la rassicurante quiete della pianura o la dolcezza delle colline, ma solo la rocciosa e ruvida tensione verticale delle scogliere che salgono dal mare ai monti. Coltivare la vite in questa terra vuol dire prima di tutto creare spazio per la vigna. Disegnare il profilo orizzontale della montagna con le linee parallele di vertiginosi terrazzamenti e muretti a secco. Un lavoro paziente, che ha creato un ordinato paesaggio, testimone di una viticoltura artigianale. Un rapporto con la vigna quotidiano, fatto di lavorazioni manuali e di vendemmie faticose. Nonostante un paesaggio dal volto duro e ostile, la storia della viticoltura ligure ha origini antichissime.
L’introduzione della vite nella zona di Levante risale all’epoca etrusca, mente a ponente si deve probabilmente ai contatti con popolazioni di Fenici e Greci, che già a partire dall’VIII e VII secolo avevano creato degli scali tra Marsiglia e la costa provenzale. Il Rossese di Dolceacqua nasce tra Bordighera e Ventimiglia, nell’entroterra che sale verso i primi rilievi delle Alpi Liguri. I vigneti si trovano a un’altitudine compresa tra i 200 e i 600 metri e godono di luminose esposizioni rivolte al mare. Tra oliveti e arbusti della macchia mediterranea, le vigne sono spesso allevate con l’antico metodo dell’alberello su terreni poveri e pietrosi. Le montagne proteggono l’area dalle perturbazioni che scendono da nord e le brezze marine ne addolciscono le temperature estive. Il Rossese di Dolceacqua esprime la doppia anima del territorio: la freschezza fragrante di una viticoltura di montagna, unita all’armonia solare, salina e mediterranea. Un affascinante connubio di contrasti complementari, che dona vita a un magnifico rosso.
Maccario Dringenberg: ogni vigna è un cru
La frammentazione parcellare del territorio di Dolceacqua ha spinto alcune aziende a privilegiare vinificazioni di singole vigne. Sono nate etichette di veri e propri cru aziendali, che hanno arricchito il Rossese di interessanti sfaccettature. Abbiamo approfondito l’argomento con Giovanna Maccario che gestisce sette ettari di vigneti allevati ad alberello tra San Biagio della Cima, Perinaldo e Ventimiglia. «Qui ogni vigna esprime un vino particolare e così abbiamo deciso di valorizzare questa caratteristica. Abbiamo fatto uno studio sulle Menzioni Geografiche aggiuntive, che da noi si chiamano Nomeranze, e abbiamo individuato dei territori differenti». Posau è connotato da suoli di flysch calcareo di origine marina molto ricco di sale, che dona vini molto sapidi e speziati; la vigna del Curli si trova su terreni di calcare puro ed esprime vini più strutturati, tannici e longevi.
Luvaira nasce invece su un flysch di tipo marnoso con una buona componente di argilla: i suoi vini sono molto fruttati ed eleganti e le viti ultracentenarie conferiscono una tessitura fine e armoniosa. Il Sette Cammini, infine, è proprio sul confine francese, in una zona di transizione tra il calcare e le rocce del bacino provenzale. La vigna si trova a 550 metri d’altitudine e grazie a un clima fresco regala vini molto profumati, raffinati e di alta acidità. Poi ci sono le vigne centenarie… «Ne abbiamo alcune su piede americano a Luvaria: qui la fillossera è arrivata molto presto dalla Francia e già verso il 1880-90 si è cominciato a piantare su portainnesto. Ma abbiamo anche piante prefillossera di un vitigno locale a bacca bianca, il massarda, molto probabilmente di origine spagnola o tabarchina. Oggi lo vinifichiamo insieme al rossese bianco per realizzare l’etichetta L’Amiral».
Tenuta Anfosso: le Nomeranze
Le prime vigne della Tenuta Anfosso furono piantate dal nonno dell’attuale proprietario, nel 1988. Oggi la tenuta coltiva cinque ettari suddivisi in piccoli appezzamenti e allevati tutti ad alberello. ci racconta delle vigne centenarie e della scelta di vinificare separatamente le differenti Nomeranze.
«Mio bisnonno ha piantato la vigna di Poggio Pini nel 1988, oggi ne sono rimasti 5.000 metri – racconta Alessandro Anfosso – Le barbatelle sono state acquistate a Tolone. A Luvaira abbiamo circa 7.000 metri di vigna piantata nel 1905. Sono piante che producono ancora ottime uve e rappresentano la memoria storica della mia famiglia e del territorio. Un patrimonio veramente inestimabile. Abbiamo anche una piccola vigna di circa 200 anni, ancora a piede franco, di rossese bianco, un antico vitigno locale. Sono piante sparse, perché nel 1887 c’è stato un terremoto che ha distrutto parte dei vigneti. Le piante che abbiamo sono quelle sopravvissute e non sono mai state attaccate dalla fillossera. Con questa vigna facevano 150-200 bottiglie, ora abbiamo piantato una nuova vigna e arriviamo a 600-1.000 bottiglie. È un bianco molto interessante, una vera rarità».
Particolarità che si esprimono al meglio nella scelta di vinificare per partite separate con differenti etichette. «Fino ai tempi di mio padre si vinificava tutto insieme. La mia generazione ha cominciato a produrre etichette da singole parcelle, perché ogni vigna esprime un carattere particolare. Poggio Pini appartiene alla mia famiglia da sei generazioni, poi ho acquistato Luvaia e Fulavin. Nella mia zona i terreni sono tutti di matrice scistosa e marnosa, ma Poggio Pini è esposto a sud-est e ha una percentuale molto alta di sabbia, che dona finezza; Luvaira è un vigneto molto soleggiato e i suoli argillosi donano potenza e ricchezza; Fulavin è a un’altitudine più bassa di un centinaio di metri (250 metri di altitudine) e si trova su suoli sabbiosi. Esprime un vino molto elegante e raffinato, con note floreali di petali di rosa essiccata».
Maixei: lo spirito della cooperazione
Il territorio della zona di Dolceacqua è frammentato in minuscole parcelle e molti proprietari. Nel 1985 è nata l’idea di creare una collaborazione tra piccoli viticoltori che ha dato vita alla cooperativa Maixei che oggi conta una trentina di soci. «Gestiamo direttamente poco più di 4 ettari – spiega Fabio Corradi, responsabile tecnico e commerciale della cantina – La maggior parte delle vigne sono a Soldano in Val Verbone, nella zona chiamata Pini, a Dolceacqua e a Pigna in Val Nervia. A questi vanno aggiunti 2,500 mq piantati quest’anno a pigato, ma ovviamente, non sono ancora produttivi».
La cantina ha rappresentato molto per il territorio quando la commercializzazione del vino Dolceacqua e delle uve di rossese, erano più difficili rispetto ad oggi: è stata un valido sbocco per tutti i vignaioli non in grado di vinificare in modo autonomo, ma desiderosi di mantenere i piccoli appezzamenti produttivi. «Grazie alla sua attività, la cooperativa ha contribuito a mantenere vive molte piccole vigne che sarebbero state probabilmente abbandonate». Oggi, dopo il cambio di rotta iniziato con la nascita del marchio Maixei, la coop gioca un ruolo importante nel rappresentare il territorio di Dolceacqua nella sua visione più ampia, con conferitori sparsi in tutta l’area della doc. Lo spartiacque tra il “vecchio” e il “nuovo” si colloca all’inizio del nuovo millennio.
«Il Rossese di Dolceacqua è cambiato molto negli ultimi vent’anni. Grazie a un’enologia più razionale è migliorata molto la qualità dei vini e sono scomparsi difetti – spiega Corradi – Mi riferisco in particolare ai problemi di riduzione che erano molto facili da riscontrare in passato. Quest’evoluzione ha portato anche a capire che il Rossese non è solo un vino d’annata, ma può essere un vino da medio invecchiamento». Come avevano del resto già intuito Veronelli e Soldati.