I segnali c’erano tutti, ma non li abbiamo ascoltati. Il calo dei consumi di vino è in corso da un decennio, ma solo oggi il trend è diventato così evidente da non poter più essere ignorato, complici le campagne salutistiche, i cambiamenti demografici e le bevande alternative.
«La prima conseguenza è che il rosso, che negli anni è stato l’ambasciatore del vino italiano nel mondo, ha iniziato a perdere colpi, soprattutto nel consumo quotidiano», spiega Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio di Unione Italiana Vini.
La crisi dei vini rossi
Un dato su tutti: lo scorso anno si è chiuso con l’export a volume dei Dop rossi italiani a -8% (fonte Istat). E sul mercato interno le cose non sono andate molto meglio. Nella Grande distribuzione i rossi sono scesi del 5% nel 2023 rispetto all’anno precedente. Ma anche il resto dei vini fermi si è mosso in terreno negativo: -3,6%, totalizzando l’undicesimo trimestre con segno meno. Il calo riguarda quasi tutte le grandi Dop, dal Montepulciano d’Abruzzo al Chianti, dal Nero d’Avola al Cannonau, passando per la famiglia dei Lambruschi.
Il “tradimento” dei giovani
La colpa di questo cambio di passo, secondo Flamini, è soprattutto del “tradimento” delle nuove generazioni. Una colpa, se così la si può definire, che si ripete nel tempo. «A guardare bene, tutte le generazioni hanno tradito: un tradimento dei consumi rispetto ai gusti dei loro padri», continua Flamini «Pensiamo agli Stati Uniti, primo mercato di riferimento per il nostro vino. Se dapprima erano Chianti e Lambrusco ad avere la meglio, poi è stata la volta dei vini barricati, seguiti dal successo dei bianchi, Pinot Grigio tra tutti, per poi arrivare al Prosecco». Nessuno scandalo quindi: una semplice storia d’amore e tradimento che ritorna nel tempo e con cui i produttori hanno imparato a convivere. Soltanto che stavolta “l’amante” in questione non è necessariamente una tipologia di vino differente, ma proprio un altro prodotto. Se non addirittura la rinuncia al consumo stesso.
Cosa vuole la GenZ
In questo contesto, c’è un’evidenza che può far riflettere: negli ultimi 15 anni (2008-2022) in Italia sono cresciuti i fruitori di vino, ma sono diminuiti i consumi. Un quasi paradosso che ci dice come sia cambiato il rapporto con la bevanda nazionale, diventato sempre più moderato. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio di Unione italiana vini sui dati Istat, a crescere sono, infatti, sono i consumatori saltuari: +35% (+4,4 milioni) a discapito di quelli quotidiani. Tra questo ultimi (12 milioni di italiani) resiste la fascia over 65, mentre evidenziano forti contrazioni i giovani (25-34 anni), a -38%, ma ancora di più i 35-44enni (-48%), con cali importanti (-26%) per i 45-54enni.
In forte accelerazione è dato il segmento degli aperitivi alcolici - dove anche il vino con i cocktail gioca un ruolo importante - che oggi conta quasi 22 milioni di adepti (+41% negli ultimi 15 anni), grazie in particolare al boom al femminile dei consumi fuori casa.
«La Gen Z è molto poco legata al vino e se beve, lo fa in modo molto più “laico” e con un’attenzione maggiore a calorie e grado alcolico». Da qui il successo di prodotti low alcol, ready to drink, vini naturali e mixati. Tra le ultimissime tendenze del mercato americano c’è, ad esempio, quella del vino senza zuccheri – analizza Flamini – Vini su cui, dopo la trasformazione degli zuccheri in alcol, si interviene con la tecnica della dealcolizzazione sul grado alcolico. Il risultato? Residuo zuccherino pari a zero e titolo alcolometrico entro i nove gradi».
Lavoro sartoriale su consumatori e mercati
Ma sono solo esempi di un campionato in cui l’Italia non gareggia. E non gareggia soprattutto per una questione di mentalità (oltre che di politica e legislazione). D’altronde da anni i produttori aspettano che anche nel nostro Paese, al pari degli altri, arrivi il via libera al vino low e no alcol. Ma al momento dal Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste tutto tace, mentre si perdono tempo e occasioni in favore dei competitor. «Il low alcol tanto vituperato – sottolinea Carlo Flamini – Dovrebbe essere in realtà la cosiddetta quarta gamba della sostenibilità, e andrebbe nel senso dell’ascolto di cosa chiede il consumatore. Consumatore che oggi vuole bere in maniera più salubre. Non dico che debba esserci una risposta forzata, ma una risposta intelligente sì, e che sia propositiva da parte del mondo del vino a una esigenza reale di chi sta dall’altra parte. Il tutto chiaramente lavorando in maniera molto sartoriale sui diversi target e i differenti Paesi che pongono aspetti e impongono strategie diversificati, dimenticando ormai il concetto di mercati monolitici».
I "fedelissimi" invecchiano
«La colpa del settore è quella di aver ignorato le nuove generazioni – commenta Flamini – Ma c’è un dato che di cui non si può non tenere conto: da qui al 2040 quel 30% di consumatori fedeli al vino avrà superato i 65 anni, mentre i nuovi quarantenni saranno un pianeta sconosciuto, semplicemente perché non ci si è presi la briga di studiarli e ascoltarli».
Eppure, basterebbe guardare come si muove e cosa sceglie un under 30 all’interno di un supermercato o tra le etichette di un’enoteca. Se in passato, davanti agli scaffali, iniziava a guardare i rossi, poi i bianchi e poi le bollicine, oggi fa l’esatto contrario con un’attenzione particolare alla gradazione alcolica. Questo avviene in Italia, così come dall’altra parte dell’Oceano.
Se, però, il nostro Paese non riesce ad intercettare questo cambiamento di interesse, rischia di dare un’immagine di sé invecchiata e poco accattivante. Ma attenzione, per cambiarla non c’è bisogno di rinnegare i propri vini a 15 gradi e la propria tradizione rossista. Basta non chiudere la porta alle novità.
La via di Sanremo
In questo scenario così profondamente fluido, il vino deve, quindi, riuscire a spuntarla con “competitor” molto diversi. Per quanto tempo, in queste condizioni, il vino così come lo conosciamo e lo intendiamo noi, potrà contare sullo zoccolo duro dei suoi sostenitori, per lo più boomer o, nella migliore delle ipotesi Millennials? La vera sfida è, quindi, riuscire a conquistare la GenZ, ma per farlo non può restare chiuso sulle sue posizioni. Deve per lo meno parlare il suo stesso linguaggio.
La via è quella della “sanremizzazione” per dirla con Flamini: «Sanremo pre-Amadeus è il nostro rosso blasonato, con ascolti in calo e audience vecchia. Amadeus ha fatto tornare i giovani a guarda il Festi-val. Ma non lo ha fatto portando Al Bano e Romina, ma attraverso volti nuovi, rapper, musicisti con ampio seguito sui social. Ovviamente l’operazione ha fatto storcere il naso al vecchio critico musicale, al pari di quello che farebbe tutta la vecchia critica enologica, ma intanto Sanremo ha fatto il boom degli ascolti». Tocca, quindi, al mondo produttivo scegliere cosa farne del proprio futuro: restare Sanremo dei boomer o diventare quello di tutti?