“Un territorio una sola denominazione” è uno degli obiettivi del nuovo presidente del Consorzio Conegliano Valdobbiadene Franco Adami, ma non l’unico. Nel suo programma c’è anche la tutela della Rive e soprattutto il dialogo franco e trasparente con tutti i produttori. Quello che probabilmente era mancato negli ultimi anni. Ne abbiamo parlato con il neopresidente a pochi giorni dalla sua elezione, in un momento di grandi cambiamenti per tutto l’universo Prosecco, viste le nuove nomine alla guida sia dell’Asolo Docg sia della Doc.
Che ricordo ha del suo primo mandato da presidente, che risale a 22 anni fa?
All’epoca il mondo era ben diverso da quello odierno, non esistevano le Docg di Conegliano Valdobbiadene e Asolo e il Prosecco non era il fenomeno che oggi conosciamo. C’erano però criticità anche in quel momento legate soprattutto ad una carenza normativa che lasciava spazio a fughe in avanti da parte dei più spregiudicati. Il detonatore è stato forse quello spot con Paris Hilton che pubblicizzava un Prosecco in lattina confezionato in Austria … La presa di coscienza di quelli che erano i rischi che correvamo senza un’adeguata legislatura e soprattutto la volontà di tutti gli attori della filiera ha portato alla nascita di un piano di autocontrollo, la promozione a Docg delle aree di Conegliano Valdobbiadene e Asolo e la nascita dell’area Doc che abbraccia due Regioni e nove Province e, fatto tutt’altro che banale, la stipula di una normativa che riguarda la produzione e la tutela del Prosecco nel mondo.
Nel volgere di pochi giorni sono stati rinnovati i Cda di tutte le denominazioni legate al Prosecco e tutte hanno dato un esito che indica la volontà di rinnovamento. Quali sono le nuove sfide?
Per noi sicuramente il primo passo sarà quello di rinnovare con grande impegno il dialogo in seno al mondo produttivo coinvolgendo tutti i protagonisti, dalla piccola azienda a conduzione familiare che produce solo uva alle cooperative, dalle aziende come la mia che coltiva e vinifica alle più grandi cantine. La condivisione dei progetti da parte di tutti i produttori è la base su cui fondare la nostra attività.
Vuol dire che nella gestione precedente non c’era condivisione nella gestione?
Non è che non ci fosse condivisione, è che le attività del Consorzio si sono rallentate su prese di posizione un po' rigide. Dobbiamo capire chi siamo e dove vogliamo andare, capire se le regole che ci siamo dati anni fa siano ancora efficaci o se ci sia la necessità di qualche aggiustamento perché sono convinto che non tutti i protagonisti condividano le stesse opinioni. Di pari passo va reso più stretto anche il dialogo ed il confronto proprio con le altre denominazioni perché dobbiamo trovare le basi comuni su cui fondare il nostro lavoro.
Mi piacerebbe che dal nostro confronto interno uscisse un’idea di qual è la nostra identità, qual è il nostro obbiettivo e cosa condividiamo con i cugini delle denominazioni vicine. Non solo dal punto di vista produttivo ma specialmente nella comunicazione.
Cosa condividete?
È innegabile che una parte del racconto sia comune …vorrei che ogni volta che si parla di Prosecco, qualunque sia la denominazione di riferimento, le prime frasi del racconto fossero uguali per tutti e su questa sorta di introduzione ogni denominazione e, a cascata, ogni produttore inserisse i suoi valori e la sua identità. Sono convinto che un dialogo di questo tipo, trasparente e sincero, non possa che portare sinergie positive.
Il confronto con gli altri Consorzi possiamo considerarlo come un primo passo verso l’idea di un Consorzio unico per il Prosecco?
No. Non credo che sia il momento storico e che non ci siano ancora le premesse perché ciò avvenga. Quello che potrebbe essere funzionale è invece una sorta di cabina di regia fra i tre Consorzi perché ci sono cose che tutti facciamo allo stesso modo e che forse andrebbero raccontate o realizzate assieme.
E sul nome Prosecco quale sarà l’indicazione? C’è chi preferirebbe rinunciarvi per non fare confusione con la Doc…
Prima di pensare al nome dobbiamo rispondere a una domanda: siamo o non siamo Prosecco? Io credo che noi siamo Prosecco e direi che nel mondo di queste freschissime bollicine rappresentiamo il territorio con il più alto valore immateriale: questo va difeso perché è fondamentale anche per le denominazioni cugine, esattamente come il mondo del Prosecco Doc è fondamentale per il nostro valore immateriale. Il problema è questo valore sia riconosciuto e non possa essere scippato o depauperato, sia dall’interno che dall’esterno di Conegliano e Valdobbiadene.
Perfetto, però mi sembra più una dichiarazione d’intenti che un programma di rinnovamento, come se il desiderio di cambiamento espresso dalla base fosse legato unicamente ad un deficit di confronto.
Credo una dichiarazione di intenti sia la prima cosa, da cui non possiamo prescindere.
È ovvio che se riusciamo a instaurare questo dialogo non potranno che scaturire le scelte sulla gestione della denominazione del territorio e sulla sua riconosciuta identità. Il primo passo deve necessariamente fissare delle nuove regole che limitino la possibilità di gestire la produzione a piacimento all’interno di Conegliano e Valdobbiadene: dobbiamo arrivare ad “un’area, un vino, un metodo”, in modo esclusivo. Il Prosecco di quest’area, storico, è totalizzante per tutti i vigneti presenti. Non c’è altro qui.
Il riferimento è alla spinosa questione della resa unica?
Proprio a quella. Dobbiamo fissare una resa che non preveda la possibilità di dirottare le uve in altre direzioni. Non parlo di limitare la libertà d’impresa, io auspico che ogni azienda, se ne sente l’esigenza, possa acquisire uve o terreni in altre zone e produrre ciò che preferisce. Vorrei, però, che non potesse produrre vino diverso dal Prosecco Superiore, nella nostra zona.
Per fare ciò dobbiamo capire anche a cosa siamo disposti a rinunciare ottenendo in cambio una identità più forte e riconosciuta. Magari anche questa volta potrebbe essere un evento esterno a far scattare la molla, ma non dobbiamo sperare che sia il mondo a costringerci al cambiamento ma essere noi a determinare il nostro destino. Anche se ciò potesse costare qualche sacrificio, qualche rinuncia…
Resa unica a parte, quali sono gli altri obiettivi del suo mandato?
Un altro argomento delicato è sicuramente quello sulla sostenibilità. Sul fronte ambientale in questi anni è stato fatto tanto, però dobbiamo sicuramente integrare il concetto di questa sostenibilità con quella economica. Siamo un territorio dove alcune attività sono estremamente dispendiose sia in termini di tempo che di investimento e anche questo deve quadrare. È stato fatto veramente tanto in questo senso: la viticoltura di oggi è veramente incentrata sul minimo impatto possibile ed ormai tutte le aziende seguono i consigli del Protocollo Viticolo del Consorzio con una costante crescita delle certificazioni delle attività. Si potrà migliorare ancora.
Si continuerà a lavorare sulla valorizzazione delle Rive?
Le Rive più belle, i pendii più ripidi e più fotografati sono anche quelli dove è più difficile lavorare e che rischiano di essere abbandonati. Questi pendii devono essere preservati dal punto di vista paesaggistico ma anche da quello produttivo, aiutando i produttori a mantenerli vivi. Già la flavescenza dorata ha decimato questi piccoli fazzoletti di terra e posso assicurare, visto che qualcuno lo coltivo anch’io, che la sostituzione delle fallanze è un lavoro lungo, faticoso ed estremamente costoso. A questo flagello dobbiamo aggiungere gli effetti del cambiamento climatico cui stiamo assistendo, con piogge che definirei più tropicali che mediterranee che comportano il dilavamento e gli smottamenti sia dei vigneti che delle stradine di accesso. Siamo un territorio unico, con una parcellizzazione estrema delle proprietà, fatto che comporta che sulle stesse stradine, talvolta poco più di un sentiero, transitino per lavorare cinque, sei o anche dieci aziende differenti. Di fronte al cedimento di una di queste minuscole stradine o di piccole parti di ciglione, non è pensabile che il ripristino venga ritardato di 5 o 6 mesi perché c’è una burocrazia soffocante.
È, quindi, la burocrazia il vero nemico?
Ci sono produttori che oggi sono terrorizzati dall’idea di sistemare queste “ferite” perché soffrono proprio la parte burocratica. Mi piacerebbe, anzi auspico, che ci siano delle regole scritte, chiare e non interpretabili che consentano al viticoltore di presentare comunicazione al Comune e la mattina dopo intervenire. Sono loro i custodi del paesaggio, se aspettiamo che crolli tutto in attesa di un pezzo di carta questo è un paesaggio destinato a scomparire. Non sarebbe più logico, ad esempio, consolidare le stradine con pochi centimetri di cemento, come si è fatto in passato, piuttosto che dopo ogni pioggia intensa trovare una ruspa che porti su ghiaia da distribuire lungo il percorso in attesa che frani nuovamente al prossimo nubifragio? Spesso c’è la sensazione che chi ha fissato queste regole non avesse chiara la difficoltà a rispettarle. Su questi argomenti il Consorzio lavorerà a stretto contatto con il Comitato Unesco. Vogliamo le nostre Rive belle, come le abbiamo fatte diventare, sicure, lavorabili ed inimitabili.
Però sul concetto di Rive, oggi valorizzato da alcune delle più interessanti interpretazioni di Conegliano Valdobbiadene, un po’ di confusione è stata fatta: non sempre stiamo parlando di pendii particolarmente scoscesi.
Negli ultimi anni abbiamo realizzato una nuova tracciatura dei confini delle Rive, escludendo proprio le zone un po' meno vocate e dove la produzione non manifesta particolare carattere, ma io, per le difficoltà citate prima, mi stavo riferendo proprio alle zone più ripide che in dialetto abbiamo sempre chiamato Rive non tutte coincidenti a quelle normate dal disciplinare di produzione, che rispondono invece al quesito “dove ho prodotto questo vino”.
Restringendo il campo alle Rive menzionate in etichetta, come sta andando?
Devo ammettere che quando lo scorso ottobre sono uscite le liste dei vini Tre Bicchieri del Gambero Rosso e ho visto che tutti i vini premiati nel mio territorio erano della tipologia Rive sono stato davvero orgoglioso. Mi piacerebbe anche andare oltre. Non è che i vini delle Rive siano necessariamente migliori, io li interpreto come vini che hanno la capacità di raccontare il legame speciale che hanno con il proprio terreno. Da sempre comunque in quest’area si applica l’arte, vera arte, della Cuvée ovvero la sensibilità di saper assemblare basi provenienti da zone diverse, esaltando in sinergia il loro connubio. Unire una base che porta in dote più profumi ad una che invece è sapida e ad un’altra ancora che ha maggior ricchezza gustativa e dopo saperle interpretare giocando con la loro dolcezza è davvero una ricchezza insita negli enologi del luogo. Mi piacerebbe che ciò fosse esaltato, offrendo la possibilità ad ogni produttore di tracciare tutte le basi che ritiene opportuno e dopo indicarne la provenienza in etichetta. Non è un vino nuovo, ma la trasparente verità di quello che stiamo già facendo. In questo modo possiamo anche avere maggior identità e al tempo stesso credibilità per tutta la denominazione.
Ci tolga una curiosità: perché è tornato alla presidenza dopo tutti questi anni?
Ho accettato di rimettermi in gioco proprio perché appartengo a questa terra e a questo lavoro. Vedo mio figlio e tanti giovani che si muovono fra vigneto e cantina con passione ma molti di loro vogliono trasparenza e autenticità in quello che facciamo. “Fare il giusto e dire il vero” è un po’ il filo che vorrei che tutta la denominazione seguisse.