Sulla scala delle vigne e del vino, la crisi climatica in Italia si è manifestata soprattutto con le sembianze di un fungo, chiamato peronospora, il “fungo della vite”. È un parassita che si diffonde con l’umidità, toglie risorse alla pianta, necrotizza e fa cadere le foglie, è letale soprattutto quando l’attacco è forte e continuato. L’intersezione tra cambiamenti climatici e vino è delicata perché il clima è un sistema complesso, pieno di fenomeni in apparenza contraddittori, e il vino è un prodotto sensibile a tutto. I primi segnali climatici del 2023 dicevano soprattutto una cosa: sarà siccità. Si rischiava la seconda annata di stress idrico consecutiva, dopo il durissimo 2022.
«Deve piovere, altrimenti siamo nei guai», dicevano gli scienziati, come l’idrologo del CNR Luca Brocca. E infatti ha piovuto, la primavera è stata estremamente umida, ma lo sbalzo sul polo opposto (tanta acqua tutta insieme) è diventato l’incubo dei vignaioli italiani.
L’incubo dei vignaioli
L’umidità ha trasformato i vigneti italiani nell’ecosistema ideale per la peronospora. Secondo Confagricoltura, il calo della produzione di vino in Italia nel 2023 è stato del 24%, con punte dell’80%. Per le quantità è stata un’annata memorabile in senso negativo, «una delle peggiori della storia», ha fatto sapere Coldiretti, una di quelle che spingono a interrogarsi sul futuro, sulla sostenibilità di un settore che fattura 14 miliardi di euro all’anno e che è un pezzo di cultura e identità nazionale. «Erano decenni che non vedevamo un attacco di peronospora così violento», spiega Palma Esposito, responsabile produzione vino di Confagricoltura. Quando piove per un mese, un mese e mezzo di fila, è difficile contrastarla, perché è complicato entrare nei filari e fare il trattamento, i trattori rimanevano bloccati nel fango e la pioggia del giorno successivo lo rendeva comunque inutile. Per i produttori di vino contrastare il fungo della vite quest’anno è stato una fatica di Sisifo che li ha lasciati prevalentemente sconfitti.
Vino e climi ostili
«L’attacco è arrivato in un momento avanzato del ciclo vegetativo, passato quel periodo abbiamo avuto una fase di temperature molto elevate, che ha dato il colpo di grazia». Il 2023 è stato l’anno più caldo mai affrontato dalla civiltà umana, questo ha reso tutto ancora più difficile per il vino, soprattutto al Sud.
Le vendemmie sono state anticipate di un mese, e questa è ormai una condizione strutturale. Il resto lo hanno fatto gli eventi meteo estremi. Secondo l’osservatorio di Legambiente, in Italia nel 2023 sono stati 378, il 22% in più del 2022. Inevitabile che colpissero la produzione vinicola: la grandine estiva ha distrutto interi vigneti nelle Langhe e in Veneto. I vignaioli romagnoli, dopo le alluvioni di maggio, hanno retto in pianura ma escono da un’annata difficile in collina dove la combinazione di frane, strade interrotte per settimane e peronospora ha portato a una vendemmia scarsa. A un evento complesso come il cambiamento climatico, il vino risponde in modo diversificato. Gli attacchi della peronospora fanno crollare le quantità, le prolungate ondate di calore ne modificano anche la natura. C’è un livello di zuccheri più alto, quindi i vini diventano più alcolici. Non sono necessariamente peggiori, sono soltanto diversi.
L'esempio di Pacina
«Il vino può essere prodotto anche in climi ostili. Il futuro lo vedo male se si continuano a fare le cose come si sono sempre fatte, perché sarà solo un circolo vizioso dietro l’altro. Dobbiamo cambiare, possiamo adattarci». Parlare con Stefano Borsa è un antidoto al catastrofismo che una stagione del genere potrebbe ispirare. Pacina, la sua azienda nella parte meridionale del Chianti, a 15 chilometri da Siena, è stata anche una delle culle dell’ambientalismo italiano. Il suocero di Borsa, Enzo Tiezzi, è stato uno dei fondatori di Legambiente. Pacina è un’azienda media, sono 60 ettari, di cui 11 dedicati alla produzione di vino. Anche qui, come ovunque in Italia, il segnale climatico è arrivato, e l’adattamento è partito.
Aumento della biodiversità
Stefano Borsa, che fa vino biologico da prima che si chiamasse biologico, oggi ha puntato sull’aumento della biodiversità. Non è la soluzione universale per tutto il settore e per tutte le scale produttive, ma è una cassetta degli attrezzi interessante per come cambierà la produzione in Italia: non più 5mila piante per ettaro in lunghi filari alla stessa distanza, ma il prato spontaneo tra le vigne che aiuta il suolo contro la siccità, evitando che si inaridisca.
E poi un’idea più biodiversa della vigna. «Stiamo provando a modificare il concetto di vigneto, inserendo le viti all’interno di un sistema agricolo più variegato». Il nuovo modello che studiano a Pacina è 1.000 piante per ettaro, spazio condiviso con ottanta olivi e altrettanti alberi da frutto. L’idea è non subire il calo della produzione, ma governarlo: «Questo vigneto non ci darà più 70 quintali di uva, ma 20, però è uva molto più preziosa, perché ci consente di guardare al futuro». Per dirla con Bulgakov, “non c’è niente di più ostinato di un fatto”, e il fatto in questione è che la crisi climatica è qui per restare e cambiare le condizioni di tutto: le siccità saranno più frequenti, le ondate di calore tenderanno a peggiorare, gli eventi estremi qualcosa da mettere sempre più spesso in conto. È stato l’avvicinamento progressivo a un futuro nuovo, chi fa vino lo sa da tempo. Come spiega Borsa: «Il primo campanello d’allarme è stato il 2003, caldissimo. Poi non è successo niente per anni, poi l’allarme ha suonato di nuovo nel 2011. Poi di nuovo nel 2015. Da allora un cambiamento che avveniva a singhiozzo è diventato definitivo». Ci sono disastri, come la peronospora, che dipendono dalle annate, ma ci sono condizioni che rappresentano la nuova normalità: aridità del suolo, estati calde e lunghe, vendemmie anticipata.
Vocazione agro-ecologica
Da anni i produttori piccoli e medi, chi fa biologico, chi ha una vocazione agro-ecologica, sperimentano soluzioni per garantire alla propria produzione un futuro anche nei prossimi decenni. Ci sono aziende che si stanno trasformando in piccoli laboratori di ricerca applicata sul campo, come Tre Botti, in Tuscia, che addirittura collabora con Riccardo Valentini, ecologo e membro dell’IPCC, il gruppo di studio dell’ONU sui cambiamenti climatici. Tre Botti è un’antologia di innovazioni: in Italia si usano 34 litri d’acqua per fare un litro di vino, loro ne impiegano solo sei attraverso un articolato sistema di raccolta, fitodepurazione e riutilizzo. In un paese che rischia di perdere il 40% dell’acqua nel corso di questo secolo, questi sistemi sono già una prospettiva di futuro. Nel 2019 sono diventati i primi vignaioli carbon neutral d’Italia. Fanno 35mila bottiglie l’anno, hanno dieci etichette, producono anche olio. Ai 2000 visitatori che accolgono ogni anno fanno divulgazione scientifica sul futuro del vino più che semplice degustazione da agriturismo.
Trattori? Proteste inefficaci
Ludovico Maria Botti è uno dei tre fratelli che hanno messo in piedi l’azienda, ed è quello con la visione e la formazione più scientifica, tiene i rapporti col mondo accademico e della ricerca. Però poi alla fine lavora in campo, e per lui «per la sfida del clima alle aziende agricole servono tre cose: innovazione, forza lavoro e formazione. Tutte cose che costano. La protesta dei trattori si è concentrata su problemi troppo piccoli, le detrazioni o l’Irpef, quando il cambiamento è strutturale e va ragionato in modo strutturale». In sostanza i vignaioli, soprattutto i medi e i piccoli, sono in grado di resistere e adattarsi, ma non possono farlo da soli, contando solo sulle proprie risorse. «Vale anche per la peronospora: avremmo potuto combatterla con i droni per spargere il trattamento, ma in Italia è vietato, e comunque costano. Avremmo potuto mandare persone nei filari ogni giorno, ma non potevamo permetterci quella forza lavoro. A noi vignaioli andrebbe riconosciuto il ruolo di manutentori del territorio, anche da un punto di vista legale ed economico. Invece tutte le soluzioni del sistema sono tarate sull’agroindustria, non sui piccoli o medi, a partire dai “nuovi OGM”».
Quello a cui fa riferimento Botti sono le tecniche di evoluzione assistita (Tea), contestate dall’agroecologia e dall’ambientalismo, attese e incoraggiate dalle grandi organizzazioni e dai produttori più grandi: il Parlamento italiano ha approvato una norma per promuovere la ricerca in campo (in Italia il polo principale è il Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura). Il presupposto è questo: se le varietà attuali fanno fatica con il nuovo clima, se ne cercano nuove attraverso l’editing del genoma.
L’editing del genoma
La Commissione europea sta studiando regole più snelle per non considerare queste pratiche OGM, evitando le limitazioni legali e culturali del caso. Le nuove varietà sarebbero considerate cloni e non geneticamente modificate, perché non viene inserito DNA di altre specie. Come ha spiegato all’Ansa Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca genomica e bioinformatica del Crea. «Le mutazioni indotte mediante editing sono in tutto e per tutto equivalenti alle mutazioni naturali che costituiscono la base biologica della biodiversità». Significa accelerare i processi naturali del vino per metterli al passo con l’accelerazione della crisi climatica. L’approvazione della norma è anche un segnale: un Parlamento così restio all’innovazione agro-alimentare su altri fronti ha deciso di sbloccare la sperimentazione fino alla fine del 2024 per i Tea che promuovono la resistenza alla siccità e alle malattie e permettono di ridurre l’uso della chimica. È quasi un indizio di quanto sia preoccupante la situazione per il settore agricolo e in particolare vinicolo. Esperti come Attilio Scienza hanno accolto positivamente la prospettiva: «Un’ottima notizia, avremo finalmente la capacità di verificare l’adattamento alle condizioni climatiche, e la risposta alle malattie dai vitigni modificati nati in laboratorio», ha detto a Wine News. Per gli ambientalisti come Botti però «i Tea sono solo uno strumento per produrre 300 quintali a ettaro, aiuteranno chi punta sulla quantità e il basso prezzo, per tutti gli altri l’unica strada è il cambiamento dei metodi, un abbassamento della produzione, una continua ricerca. Noi vignaioli non dobbiamo essere preoccupati, siamo abituati a ragionare sul lungo termine».
Strategie diversificate
Il disegno generale è che non esiste una soluzione per tutte le taglie, tutte le geografie e tutte le produzioni di vino in Italia: il 2023 è stata un’annata particolarmente infausta, che ci ha tolto anche il titolo di primo produttore mondiale. Il vino italiano sopravviverà, si adatterà, la vera incognita di questa storia è che oggi stiamo affrontando un mondo che è di 1.2°C più caldo del normale. Non sappiamo se sforeremo 1.5°C in modo definitivo, né se supereremo i 2°C o se ci avvicineremo ai 3°C, come dicono alcuni modelli. L’Europa è il continente al mondo che si riscalda più velocemente, avvicinarsi come media globale ai 3°C di aumento della temperatura vuol dire da noi raddoppiare quell’aumento di temperatura. Sappiamo che il clima cambierà nei prossimi decenni, non sappiamo di quanto, ma possiamo essere sicuri che non a tutto ci potremo adattare.