Grandi industrie contro piccoli artigiani. Lo scontro (o incontro, dipende dai punti di vista) si fa sempre più duro. È quello che sta succedendo nel mondo della birra. Un modo globale che attraversa Oceano e social network (dove il dibattito è incandescente) e accorcia le distanze tra Usa ed Europa. E il centro del fermento in queste settimane è stata proprio l'Italia con una data a fare da spartiacque: 22 aprile 2016, quando Birra del Borgo, il birrificio di Borgorose (Rieti) si è venduto al più grande gruppo birraio del mondo: Ab InBev. Leonardo Di Vincenzo ha ceduto il 100% delle quote rimanendo, però, amministratore delegato. Non ci sono conferme, ma la compravendita dovrebbe aggirarsi sui 20 milioni di euro. Da ora probabilmente ci sarà un prima e un dopo.
Non è certo una novità che i grandi comprino i piccoli (in Italia vedi il caso della gelateria Grom), ma relativamente al settore brassicolo, il fenomeno aveva riguardato sino a ora solo gli Usa (non senza polemiche) e in Europa solo Regno Unito e Olanda. Nel Regno Unito lo scorso anno il birrificio artigianale Meantime era stato acquistato dal colosso SabMiller, ma è notizia del mese scorso che è stato rivenduto al gruppo giapponese Asahi Group. Sempre in Uk, qualche mese fa, Ab Inbev ha acquisito Camden Town, uno dei birrifici della new wave birraria londinese. E ancora, il gigante belga Duvel Moorgatha ha firmato una partnership con il microbirrificio ‘t Ij di Amsterdam.
L'identikit del microbirrificio
Si è soliti distinguere tra microbirificici (che si dedicano esclusivamente alla produzione di birra artigianale), brewpub (che affiancano alla produzione anche un'attività di mescita in loco) e beerfirm (che si appoggiano ad altri birrifici per la produzione). Secondo il rapporto 2015 Osservatorio Altis-Unionbirrai una tendenza in corso è quella di avere più soci, di solito due (70% degli intervistati), di cui uno è anche il mastro birraio. A livello economico si è consolidata nel 2015 una fascia intermedia, cioè birrifici che hanno un fatturato compreso tra i 100 mila euro e gli 800 mila (62,8%). I canali più usati per le vendite rimangono quello diretto, le fiere (soprattutto per le startup) e si sta sempre più affermando quello indiretto. La presenza in Gdo è ancora bassa: l'81,6% del campione non è presente tra gli scaffali. Infine, il 46,9% dichiara di aver saturato la capacità produttiva.
Adesso un colosso che distribuisce qualcosa come 60 miliardi di litri di birra all'anno, si è scomodato fino ad un borgo semisconosciuto reatinoper fare affari. È chiaro che qualcosa stia cambiando. E se fosse il primo dei tanti casi? Se i piccoli birrifici cominciassero a far gola agli zii d'America (che non sono solo americani)? O ancora, se i Golia d'Oltreoceano cominciassero addirittura a temere i piccoli Davide tanto da fagocitarli?
Alla notizia dell'acquisizione, le reazioni sono state varie, ma a prevalere è il timore che possa essere solo l'inizio di un cammino che porterà alla graduale perdita d'identità del birrificio indipendente. Ed è iniziato una sorta di boicottaggio mediatico e non solo. Tra gli altri, Teo Musso, birraio e proprietario di Baladin ha annunciato che nei suoi locali non servirà più prodotti Birra del Borgo. La contraddizione è che Leonardo Di Vincenzo è in società proprio con Baladin, quindi paradossalmente non potrà più servire la propria birra nel locale in cui detiene delle quote:“La filosofia che guida i locali Open” ha detto Musso“è di ospitare birrifici indipendenti e venendo meno questa condizione nell’assetto societario di BdB, abbiamo deciso per comune coerenza di interrompere il servizio delle sue birre”.
Ma il 'boicottaggio' non riguarda solo l'Italia: Birra del Borgo è stata esclusa da Quintessence, il festival di Bruxelles che quest'anno avrebbe dovuto ospitare proprio l'insegna di Borgorose. Come ha spiegato Jean Van Roy, titolare della Brasserie Cantillon che organizza la manifestazione: “Leonardo di Vincenzo è un amico prima ancora di essere un grande birraio, ma noi non possiamo far entrare la volpe nel pollaio”
La presa di posizione di Jean Van Roy
Negli anni '60, '70 e nei primi anni '80, in Belgio la grande industria ha acquistato un sacco di piccoli birrifici artigianali. “In 20 anni abbiamo perso molte belle fabbriche di birra, molte grandi birre e molta storia” racconta “siamo molto fortunati ad esserci ancora oggi, grazie ad una nuova rivoluzione. Tuttavia ho la sensazione che la grande industria adatterà, a livello globale, la stessa politica che ha usato in Belgio quarant'anni fa”. Cosa è accaduto allora? “Qui la reazione contro questo monopolio è arrivata troppo tardi. Ecco perché, adesso abbiamo bisogno di reagire il più velocemente possibile e questo è anche il motivo per cui non ho potuto accettare un membro Ab Inbev nel birrificio Cantillon”. E il riferimento è all'esclusione di Birra del Borgo dal Festival Quintessence. “Oggi la grande industria guarda alla craft beer come ad una possibilità per costruire un'immagine migliore, e per poter dire: "Guarda, noi siamo come voi". Ma non lo sono, e se vogliono emularci è perché stiamo facendo bene. Se permettiamo alla grande industria di prendere in consegna quello che abbiamo costruito, la storia si ripeterà ... e spero non vivremo di nuovo gli eventi del Belgio di quarant'anni fa”.
Ma, se la volpe provasse ad entrare nel pollaio - o in altri pollai - con un assegno da 20 milioni di euro? In questo caso prevarrebbe il fiuto per gli affari o l'etica indipendente? Lo abbiamo chiesto ad alcuni birrifici indipendenti italiani (di dimensioni e di “periodi storici” differenti), provando a tracciare insieme il prima, il dopo e il durante vendita-Birra del Borgo. E nessuno ha escluso categoricamente l'ipotesi di accettare una eventuale offerta.
Giovanni Campari (Birrificio del Ducato): è tempo di cambiare strategia distributiva
Iniziamo dal Birrificio del Ducato di Soragna (Parma), realtà nata quasi dieci anni fa, che oggi conta otto soci, produce 9 mila ettolitri l'anno e ha all'attivo circa 40 birre distribuite in oltre 20 paesi nel mondo, con gli Usa mercato di riferimento. “Quando abbiamo iniziato” ci racconta Giovanni Campari “in Italia c'erano circa 150 birrifici, oggi sono 1100. Ai tempi in Italia non c'era la cultura della birra artigianale e non è stato facile imporla, perché era un prodotto percepito come non italiano. Per cui, il paradosso è che prima siamo dovuti andare all'estero per poi tornare in Italia. Emblematico è l'episodio di una salumeria di Parma che inizialmente rifiutò la nostra birra, mentre la loro filiale di New York ci inserì subito in catalogo”. Campari è tra i birrai che ha imposto lo stile italiano anche all'estero, lo scorso anno è sbarcato a Londra con un pub di birre italiane (il primo nella capitale inglese) abbinate alla cucina - The Italian Job - e ha appena concluso un campagna di crowdfunding per aprirne un secondo: “Abbiamo raccolto più del previsto” ci rivela “422 mila pound. L'obiettivo è aprire altri quattro locali nei prossimi quattro anni. L'accoglienza in città è stata ottima: in un anno un incremento del 35%. E anche le difficoltà sono minori rispetto all'Italia, mi riferisco soprattutto a tassazione, accise e burocrazia”. Tuttavia c'è chi, nonostante le difficoltà, investe anche nel nostro Paese. E a tal proposito chiediamo a Campari che idea si sia fatto del caso Birra del Borgo: “Non mi ha sorpreso” risponde “immaginavo sarebbe arrivata la proposta. E sono sicuro non sarà un caso isolato. Molto probabilmente a breve contatteranno altri, mi aspetto di essere contattato anche io. Cosa dirò? È molto difficile: dipenderebbe dalla proposta, ma la parte emotiva non mi consentirebbe di prendere decisioni alla leggera”. Interessante è capire cosa succederà sul mercato adesso: “Probabilmente Birra del Borgo” è l'analisi di Campari “perderà la grossa fetta rappresentata dalla nicchia artigianale. In Usa, i locali specializzati che frequento, dicono che non la tratteranno più. Ma probabilmente per il birrificio di Leonardo potrebbe aprirsi un altro mercato, locali di altro tipo, non specializzati. E poi forse la Gdo. In ogni caso credo che siamo a un momento di svolta e che i birrifici artigianali debbano cambiare la strategia di distribuzione: la nuova sfida è la capillarità, altrimenti si rischia il localismo e l'immobilismo”. Immobilismo che di certo non rischia Campari, visto che, tra le altre attività, un mese fa si è lanciato in una nuova avventura a Roma (“Roma per la birra è la piazza italiana per eccellenza” dice), Sbanco, insieme agli amici e soci Calligari e Pucciotti. Dove, per inciso, Birra del Borgo non figura tra le proposte.
Birrificio Artigianale Veneziano: piccole dimensioni, grandi obiettivi
Passiamo a un gruppo relativamente giovane: Bav (Birrifico Artigianale Veneziano) di Martellago (Venezia). La nuova gestione risale al 2012 (8 soci, 4 dipendenti), nell'ultimo anno ha incrementato la produzione, arrivando a 1,5 mila ettolitri. L'obiettivo sono i 2 mila . “Si tenga presente che si parla di un prodotto di scala” dice l'homebrewer Rudy Liotto “più si produce meno costi si hanno. Credo che il settore debba mettersi anche in quest'ottica se vuole crescere. Certi compromessi – non quelli sulla qualità, sia chiaro – sono necessari. Penso a una politica di sconti, perché il prezzo è uno dei fattori che, di certo, non aiuta la birra artigianale. E la mentalità del piccolo non sempre premia: vale comunque il principio del più vendi più produci. Non il contrario”.
Anche per questo Bav è scritto, oltre che ad Unionebirrai, anche a Confindustria: “Mi è utile per avere certe informazioni e contatti, ad esempio per fare export, anche se ancora siamo presenti in pochi mercati: all'estero è facile entrare, ma altrettanto uscirne”. E sul piano della distribuzione italiana ha scelto un grosso gruppo come Cuzziol (lo stesso che è in affari con Benetton nel settore vino, per intenderci). “Al momento vendiamo soprattutto nel canale Horeca, ma credo che la Gdo vada sfruttata meglio per fare grandi numeri”.
L'opinione di Liotto sui cambiamenti della birra artigianale negli ultimi anni è abbastanza netta: “Paradossalmente credo che a migliorare anche qualitativamente, siano stati proprio i grandi, quali Baladin, Birra del Borgo, Lambrate. Mentre i piccoli ho l'impressione che arranchino, senza una vera identità”. E sul caso del momento - Birra del Borgo - va dritto al punto: “Credo sia stato un affare per entrambi: Ab InBev si è assicurato un marchio italiano importante, Leonardo si è assicurato la possibilità di fare grandi numeri, presidiare l'estero e fare ricerca. Senza contare che ci troviamo in un mercato non troppo stabile: se crollasse cosa succederebbe? Ecco lui si è messo al sicuro e ha messo al sicuro i suoi dipendenti. Non so se avrei preso la stessa decisione, ma capisco che a un certo punto ci si possa stancare di vivere nell'incertezza, stare dietro alla burocrazia, alle banche. Ha scelto la via della stabilità. D'altronde i grandi numeri non impediscono di fare alta qualità, penso ad esempio a Sierra Nevada: enorme realtà, ma di livello”.
Un borderline: Amarcord e il ruolo della Gdo
Passiamo a uno dei più grandi birrifici per produzione, praticamente un borderline che sta ai confini tra mondo artigianale e non. Nato nel 1997, Amarcord di Apecchio (Pesaro-Urbino) è stato uno dei primi birrifici indipendenti italiani. “La nostra è stata la licenza numero 7” ci ricorda l'ad Andrea Bagli “Ai tempi la birra artigianale sembrava un prodotto quasi mistificato, difficile da comprendere. Non è stato facile. Ma dopo quasi 20 anni siamo una realtà affermata che produce 27 mila ettolitri l'anno. Abbiamo volumi molto più alti rispetto alla media del produttore artigianale (che si aggira intorno a 650 ettolitri; ndr), ma siamo ben lontani dal mondo industriale. Abbiamo un impianto produttivo e un mastro birraio, 18 dipendenti e soprattutto manteniamo l'assetto indipendente”.
Per la propria comunicazione, Amarcord ha, però, scelto la dicitura birrificio familiare (non artigianale): “Il termine artigianale” spiega Bagli “nonostante non abbia ancora una sua connotazione legislativa, ci sembra già superato. La nostra filosofa è quella di produrre una birra popolare, accessibile a tutti, per questo facciamo prodotti per tutte le tasche”. Le vendite all'estero si concentrano in 20 mercati per una quota del 20% e – scelta non comune – il 30% della produzione è destinata alla Gdo. “Un canale a lungo snobbato dalla birra artigianale” dice Bagli “ma è un tabù che si sta superando: ormai ci sono almeno dieci etichette costantemente presenti tra gli scaffali. Tra le obiezioni che spesso vengono fatte, ci sono i problemi di immagazzinamento e conservazione, ma a mio avviso è una logica che non regge: se vendi il prodotto il problema della cattiva conservazione non si pone, altrimenti riguarda tanto la Gdo quanto il beershop di nicchia. E poi è innegabile il grande aiuto che ne viene in termini di immagine e circolazione”.
Sul tema Birra del Borgo, Bagli traccia un quadro molto lucido: “Il gruppo Ab InBev, dopo aver ceduto Peroni al gruppo nipponico Asahi (compravendita di poche settimane; ndr),aveva bisogno di coprirsi in Italia e per farlo ha scelto un marchio artigianale ben rappresentato. D'altronde, non credo che adesso gli altri grandi gruppi staranno a guardare”. Più complicato rispondere alla domanda: “cosa avresti fatto al posto di Di Vincenzo”:“Non saprei” dice “bisognerebbe vedere gli argomenti sul tavolo, ma non cederei a cuor leggero: e poi ora come ora vorrei continuare a divertirmi da me, com'è stato in questi anni”.
Il parere di Simone Monetti, direttore operativo di Uniobirrai
Nata nel '98 con i primi birrifici - i primissimi c'erano già dagli anni 90 – Unionbirrai è da subito stato un punto di incontro per i birrai artigianali. Negli ultimi cinque anni le cose sono molto cambiate: se dieci anni fa c'erano 90 microbirrifici, oggi sono 850 (quelli con impianti propri), compresi i beerfirm si arriva complessivamente a 1100. Negli ultimi 3 anni la crescita è stata addirittura del 50%. Per capire come sta cambiando il panorama della birra artigianale, quali sono i margini di crescita e quali i problemi da risolvere, abbiamo parlato con il direttore operativo dell'associazione, Simone Monetti.
Iniziamo da una nota dolente: i consumi. Qual è la situazione in Italia?
L'Italia è un mercato asfittico: ci contendiamo il primato di peggiori bevitori al mondo di birra con i francesi. Tra l'altro parliamo di un mercato estremamente stagionale e fragile. Certo, erodiamo posizioni alla birra industriale e, se ne 2012 la produzione artigianale rappresentava l'1,1% del totale, oggi rappresenta il 3,3%, ma i volumi rimangono bassi: consideriamo che in media ogni birrificio non produce più di 650 ettolitri l'anno.
L'export può essere una valvola di sfogo?
Potrebbe. Sicuramente le esportazioni crescono, ma la concorrenza è altissima: persino in mercati improbabili, come l'India, dobbiamo vedercela con sempre più marchi esotici.
Tra i problemi del settore, quello che maggiormente affligge la birra (come invece non avviene con il vino) riguarda le accise... Come funziona per quella artigianale?
I produttori di birra artigianale rientrano in un regime agevolato, ma paradossalmente la cosa da elemento di semplificazione finisce per diventare elemento di vessazione. Mi spiego meglio: per non incorrere in tutti in controlli burocratici cui sono soggetti i gruppi industriali, a noi viene chiesto di pagare l'accisa preventivamente, quindi calcolandola al mosto e non sul prodotto finito. In poche parole, così, paghiamo prima e di più, rimettendoci sullo sfrido (durante il processo produttivo si perde circa il 10% del prodotto; ndr). Per cui ad ottobre abbiamo chiesto di inserire nel Testo Unico delle Accise la possibilità di pagare sul prodotto finito, senza tuttavia dover rinunciare al regime agevolato sui controlli.
È invece in dirittura d'arrivo la proposta di legge relativa alla definizione di birra artigiane che, finalmente, darebbe la possibilità di utilizzare la dicitura in etichetta.
Sì, esatto. L'ha presentata il parlamentare Alberto Pagani (Pd) ed è già stata approvata alla Camera. Per cui adesso dovrebbe passare al Senato: ci hanno assicurato in tempi brevi. Fino a questo momento le uniche indicazioni consentite erano: birra analcolica, light, normale, speciale, doppio malto.
Quindi chi, in questo momento, utilizza il termine artigianale potrebbe incorrere in sanzioni?
Sì, anche se molto dipende dall'interpretazione stessa della legge.
Secondo il nuovo ddl chi rientra nella categoria di birra artigianale?
Premesso che su questo testo abbiamo chiesto di continuare a lavorare perché non ci soddisfa del tutto, soprattutto nella parte in cui vengono definiti i processi produttivi, ad oggi rientrerebbero nella definizione le birre non pastorizzate e non microfiltrate e i birrifici economicamente indipendenti dai grandi gruppi.
Per cui birra del Borgo non potrà fregiarsi di questa dicitura?
Una delle condizioni per essere tale è l'indipendenza, per cui il birrificio di Borgorose non appartiene più a questa categoria.
E potrà restare all'interno di Unionbirrai?
Vale lo stesso principio: l'indipendenza economica è la conditio sine qua non.
Che idea vi siete fatti su questa acquisizione?
Ci aspettavamo che primo o poi sarebbe arrivato il primo caso anche in Italia, ma ci hanno sorpresi i tempi: il mercato non ci sembrava ancora maturo per questo passo. Anche la cessione del 100% delle quote da parte di Leonardo ci ha un po' spiazzato. Adesso il timore è che questo avvicinamento tra mondo artigianale e mondo industriale, possa riportarci ad una situazione precedente. Un passo indietro che potrebbe mettere a rischio tutto il cammino fatto fino ad ora.
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 12 maggio
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a cura di Loredana Sottile