ffascinare col suo enorme campionario di territori, vitigni, personaggi, stili produttivi. Si possono discutere le diverse riuscite, le singole annate, le personali scelte agronomiche e filosofie enologiche, ma di sicuro non ci si annoia mai nella terra che riforniva la Roma imperiale. E con questo report cerchiamo di condividere sinteticamente le nostre impressioni sulle varie zone che, quest’anno anche visivamente, hanno disegnato la mappa degli assaggi dal padiglione B della fiera veronese.
Vini bianchi
La crisi non è finita e lo si capisce immediatamente dal numero, mai così basso, di bianchi dell’ultima vendemmia portati in fiera dalle aziende campane. Davvero pochi i 2011 disponibili, quasi sempre come campioni da vasca che vedranno la bottiglia in estate e in molti casi verranno presentati sul mercato in autunno. Da un lato siamo consapevoli di quanto sia complicata una congiuntura del genere, specialmente per le piccole realtà artigiane, dall’altra non possiamo fare a meno di salutare positivamente questo slittamento delle uscite. Perché i bianchi campani, nessuno escluso, possono essere solo penalizzati da imbottigliamenti lampo, iniziando ad esprimere il loro potenziale varietale e territoriale dopo almeno un anno dalla vendemmia.
Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova proprio grazie ai tanti riassaggi targati 2010: millesimo semplicemente straordinario per tutti i bianchi regionali, da Roccamonfina al Basso Cilento, con una serie incredibile di vini nervosi, saporiti, articolati aromaticamente e completi sul piano gustativo, di spettacolare prospettiva temporale. I nomi da fare sarebbero troppi, vi invitiamo quindi a verificare nei prossimi mesi ed anni se stiamo esagerando: crediamo proprio di no.
Quanto ai primi test sui 2011, l’idea che ci stiamo facendo è in linea di massima quella di un’annata “media”: al di là delle eccezioni virtuose, che pure ovviamente ci sono, la finestra torrida di fine agosto-inizio settembre sembra aver tolto qualcosa non tanto sul piano aromatico quanto nello sviluppo del sorso. I nasi sono in generale solari ma comunque freschi e sfaccettati, quello che manca semmai è un plus di sapore e spalla, energia e profondità che vengono a mancare soprattutto a fine bocca. Come detto sono suggestioni interlocutorie per vini che potrebbero cambiare tanto nei prossimi mesi, e allora anche il nostro “borsino” delle zone ce lo giochiamo con prudenza.
In Irpinia ci sembra un’annata più favorevole al Greco di Tufo rispetto al Fiano di Avellino, che però ci ha abituato a rimonte clamorose in altre stagioni calde, 2003 su tutte. Forse non sarà all’altezza della stagione precedente, ma la Falanghina è una delle varietà uscite meglio dal 2011, sia nelle sottozone sannite che nei Campi Flegrei: magari c’è meno ampiezza olfattiva ma in qualche caso più sostanza. Discorso simile per la Coda di Volpe, più contraddittorio il quadro per i bianchi della Costa d’Amalfi, del Vesuvio e del Cilento. Tra qualche mese avremo una nuova prova di gruppo e vi faremo sapere.
Vini rossi
Se la vocazione bianchista della regione appare sempre di più un dato acclarato e condiviso, l’anima rossa della Campania si esprime con maggiore discontinuità. Per farla breve anche questo Vinitaly ha suggerito una specie di polarizzazione tra due macrogruppi in qualche modo opposti: da una parte una quota rilevante di rossi strutturati, austeri, “importanti” ma non sempre immediati e piacevoli, dall’altra una folta schiera di vini di entrata fin troppo semplici e, soprattutto, mancanti di argomenti, tirati, scontati.
Continua a mancare la classica “via di mezzo” ed è un vero peccato perché probabilmente anche i mercati premierebbero quei rossi campani proposti a prezzo giusto, capaci di tenere insieme bevibilità e brillantezza del frutto, agili senza per questo essere banali. Ci vorrebbero più pesi welter, insomma, accanto alle troppe riserve e selezioni che fanno ancora fatica a sganciarsi dal modello materico-estrattivo e che nelle migliori espressioni dimostrano di aver bisogno di pazienza per rilassarsi e concedersi. Il fatto è che per ogni Taurasi o Taburno o Falerno di livello che meritano di essere aspettati anche per decenni come si farebbe con un grande Rodano o Bordeaux, ci vorrebbero altrettanti “base” che sappiano giocarsi la partita anche nel breve periodo, trovando una misura sulle gradazioni ma soprattutto percorrendo nuovi sentieri stilistici alla ricerca di giovialità, naturalezza, empatia.
In alcuni casi possono esserci dei limiti climatici, territoriali o ampelografici, ma alcune bottiglie con questo profilo esistono già e ci dicono che la “terza via” si può costruire.
Restando sull’Aglianico, ad esempio, il Satyricon ’09 di Luigi Tecce ma anche il Re di More ’10 di Mastroberardino, senza dimenticare il Falerno ’09 di Masseria Felicia. Ancora più chance se pensiamo agli autoctoni casertani o amalfitani, al piedirosso ma soprattutto alle possibilità offerte dai blend, ingiustamente veicolati nell’ultimo decennio come figli di un bacco minore.
Ed allora ecco qualche suggerimento per capire di cosa parliamo quando invochiamo bottiglie “serie” ma al tempo stesso golose, di quelle che apriresti a ripetizione senza dover per forza stare sulla difensiva: Castello delle Femmine ’10 di Terre del Principe, Amarante ’10 di De Conciliis, Piedirosso ’10 di Cautiero, Cardamone ’10 di Reale, Sannio Piedirosso ’10 di Mustilli.
Paolo De Cristofaro
02/04/2012