Amava definirsi un “semplice mescolatore di vini” e di fatto non sapremmo trovare definizione migliore per chi di vini ne ha “mescolati” davvero tanti. Ma il segreto e la differenza stavano tutti in quella miscela: dosata, perfetta, interprete dei tempi e del territorio. Ora a base di autoctoni, ora con taglio bordolese, ora con entrambi. Ogni tocco di questo Re Mida dell'enologia ha trasformato il vino in oro: dalla Toscana alle Marche, senza dimenticare le isole maggiori, Sardegna e Sicilia. Ogni “ricetta”, un vino destinato a passare alla storia e a cavalcare i mercati: nella lista ci sono nomi di peso come Sassicaia, Solaia, Tignanello, Turriga. Ma anche progetti legati alla rivalutazione di vitigni come il Nero d'Avola e il Carignano del Sulcis. A poche settimane dalla sua scomparsa, abbiamo voluto rendere omaggio al padre degli enologi contemporanei, facendo parlare proprio i suoi vini. Non tutti, non abbastanza. Ma giusto quel poco che basta per capire chi è stato, e cos'è ancora, Giacomo Tachis per l'enologia italiana.
Dal 1970 agli anni '90: Tignanello, Solaia, Guado al Tasso
Anni '60, Toscana. In quella che sarebbe diventata la sua patria adottiva, Tachis entrò dalla porta principale: le Tenute Antinori. “Ai tempi mio padre cercava un nuovo enologo” racconta il Marchese Piero Antinori “e questo giovane glielo consigliò il professore Garoglio. Tachis lavorava in Romagna, in una piccola azienda che faceva vini da tavola su richiesta. Decidemmo di fidarci. E oggi posso dire che, se per lui fu l'occasione della vita, per noi fu un vero colpo di fortuna. Allora la nostra produzione era legata al Chianti Classico Villa Antinori e al Santa Cristina, ma la viticoltura toscana - e italiana - stava attraversando un momento particolare: si era passati dalla mezzadria a un nuovo ciclo dell'economia, erano stati impiantati nuovi vigneti in tutta la Regione, con non pochi errori, la qualità era bassa, così come i prezzi, di conseguenza l'immagine del vino toscano ne soffriva. Bisognava trovare soluzioni. Ecco, Giacomo Tachis fu l'uomo del cambiamento. Insieme iniziammo a frequentare Bordeaux e l'enologo Emile Peynaud”.
Da quelle “lezioni” francesi, Tachis portò in Italia un nuovo modo di fare vino, introducendo, tra le altre cose, la fermentazione malolattica e l'invecchiamento in barrique. Fu così che nel 1970 nacque il Tignanello (nella sua versione definitiva sangiovese, cabernet sauvingon e cabernet franc. Il primo rosso toscano senza utilizzo di uve bianche). “Fu un misto tra intuito e sperimentazione. Senz'altro il vino della svolta” continua il Marchese“ma anche un vino controverso perché era da poco stato introdotto in Italia il sistema delle denominazioni ed era difficile spiegare perché un vino classificato come vino da tavola (in seguitoIgt, per poi diventare uno dei Supertuscan per eccellenza; nrd) costasse molto di più - allora circa 2 mila lire - e non fosse inserito all'interno di un disciplinare. La prima produzione fu di 60 mila bottiglie, ma, dico la verità, all'inizio noi stessi non eravamo sicuri del suo successo e quindi aspettammo un po' per smaltirlo e qualche anno per una seconda produzione. Poi arrivò il premio Vinarius e le cose cambiarono. Capimmo che i mercati, in primis quello locale, erano pronti per il salto di qualità”.
Sull'onda di questo successo, nel '78 fu la volta del Solaia: “Ricordo la sua nascita quasi come un gioco” ci racconta Piero Antinori “quell'anno c'era stato un'abbondanza di cabernet di ottima qualità e Tachis pensò di approfittarne per provare un nuovo vino. Era nata la nostra punta di diamante. L'annata '97 segnò la svolta con il premio come miglior vino dell'anno della prestigiosa classifica di Wine Spectator: la prima volta per un italiano. Mi piace pensare a quel premio come un riconoscimento internazionale al nostro vino, ma soprattutto a Giacomo Tachis. Oggi abbiamo la soddisfazione di ritrovarlo anche nel catalogo dei négociant francesi dove difficilmente entrano altri vini che non siano Bordeaux. E la cosa che ci dà più soddisfazione è che non siamo stati noi a proporci, ma loro a cercarci”.
Infine - e siamo già negli anni '90 - arrivò anche la terza creatura Tachis, il Guado al Tasso che lui mise a punto nella Tenuta di Bolgheri. Un tris senza precedenti. Ma cosa sarebbe oggi l'azienda Antinori senza questi vini? “Sicuramente saremmo stati qualcosa di diverso” risponde il Marchese “Abbiamo un grosso debito di gratitudine verso questi prodotti e soprattutto verso Giacomo Tachis. E non solo noi, ma tutta la viticoltura: i vini italiani erano prima considerati come dei prodotti di basso prezzo e solo a partire da queste sperimentazioni si capì che eravamo capaci di intercettare anche altri tipi di domande. Il grande merito di Giacomo è stato cambiare, oltre al vino, anche la figura dell'enologo: non più un chimico pronto a intervenire sul vino in caso di urgenze, ma colui che segue il vino dalla vigna alla bottiglia e che sa renderlo da buono a perfetto, cogliendo quelle sfumature che fanno la differenza. Il suo era un vero tocco d'artista”.
Sassicaia: il miglior vino del secolo
Altro vino, altra “miscela”. “Tachis arrivò da noi, a Bolgheri, ai primi degli anni '70” racconta il Marchese Nicolò Incisa della Rocchetta “collaborava già con i nostri cugini Antinori che ci avevano consigliato di rivolgerci a lui poiché era un momento cruciale: dopo anni di produzione familiare, si trattava di fare il salto sul mercato. Mio padre già da trent'anni aveva iniziato a sperimentare i vitigni internazionali nello stesso blend che conosciamo oggi. Man mano, però, la produzione aumentò e si decise ad imbottigliare. La prima annata sul mercato fu la 1968, uscita qualche anno dopo: 3 mila bottiglie per un prezzo di 5-6 mila lire”. E qui entrò in scena Tachis “che ebbe il merito di riuscire a non snaturare la filosofia di questo vino, pur dovendolo ripensare in ottica di mercato” spiega il Marchese “tra le novità che, all'inizio, furono motivo di scontro con mio padre, ci fu l'introduzione dei tini di acciaio per la fermentazione. Ma ovviamente era un modo per non rischiare sulle grandi quantità. Una delle caratteristiche di Tachis, infatti, era di non voler imporre le sue idee, ma ascoltare e decidere insieme”.
Da quelle prime 3 mila bottiglie si arrivò fino a 360 mila. Oggi se ne fanno circa 240 mila. Ma quale fu l'accoglienza sul mercato 40 anni fa, quando soprattutto l'Italia era abituata a vini di altro tenore?“In Italia Veronelli lo elogiò da subito” continua il marchese Incisa della Rocchetta “Ma l'accoglienza migliore si ebbe come sempre in Inghilterra. La svolta è datata 1977. A una degustazione di grandi vini a Londra, il Sassicaia risultò il migliore, sorprendendo tutti: gli italiani non avevano mai superato i francesi. Successivamente Robert Parker diede 100 punti all'annata '85 definì il Sassicaia il migliore vino del secolo”. Fu la consacrazione Oltreoceano, ancora oggi il miglior mercato di sbocco. Sebbene sia la Svizzera quello che, comparato al numero di abitanti, registra le migliori performance.
“Oggi circa l'80% della produzione va all'estero, dove cerchiamo di coprire tutti i Paesi, anche quelli meno probabili: dall'Iran all'Azerbaigian” spiega il direttore Carlo Paoli “Il nostro segreto è non inflazionare il mercato: essere dappertutto, ma sempre con quantità ridotte, di solito al di sotto del 60% rispetto alla domanda”. Inutile chiedere cosa sarebbe la Tenuta San Guido senza questo vino: “Il Sassicaia rappresenta il 70% del fatturato aziendale” risponde il Marchese “probabilmente senza questo vino non ci sarebbe la Tenuta, non come la conosciamo. Inizialmente la nostra attività principale, oltre alla coltivazione di bulbi da fiore, era l'allevamento di cavalli. Attività che nel tempo, senza essere abbandonata, ha cominciato ad essere affiancata dalla produzione vitivinicola. Ecco: probabilmente, senza il Sassicaia, quella sarebbe rimasto il nostro core business”.
E, invece, il Sassicaia è stato il vino che ha fatto nascere e decollare i Supertuscan, il primo e unico ad avere una doc proprietaria (dopo essere stato vino da tavola, Igt e poi una sottozona della Doc Bolgheri, nel 2012 ha potuto fregiarsi della Doc Bolgheri Sassicaia), uno dei pochissimi – ci sono anche i vini Antinori, Frescobaldi e Gaja - ad entrare nel Live-ex Fine Wines 100 (l'indice composto per lo più da vini Bordeaux) e uno dei vini italiani più ambiti nelle grandi aste, sebbene la filosofia aziendale è quella di portarlo sulle tavole, piuttosto che vederlo trasformato in un semplice oggetto di culto.
Pelago: il rosso delle Marche
Ma la Toscana non fu l'unica patria adottiva di Tachis. Ci fu un momento in cui l'attenzione si spostò sull'altro versante, nelle Marche. E qui l'enologo di origini piemontesi vinse la sfida di creare un grande rosso internazionale in una terra di grandi bianchi. Nacque il Pelago della cantina Umani Ronchi.
“Tachis rimase qui da noi come consulente dal 1992 al 2001” ci racconta Michele Bernetti, titolare dell'azienda “Il Pelago nacque nel 1994. Allora facevamo Verdicchio e Montepulciano d'Abruzzo. L'idea era di creare un vino che avesse uvaggio bordolese, ma non avevamo mai pensato a un blend con un autoctono. Ci pensò Tachis. Ricordo ancora che eravamo in laboratorio e lui ci fece assaggiare questa pozione: cabernet, merlot e montepulciano, il risultato era già eccezionale. Poi procedemmo con la barrique”. Nel '97 quel vino entrò in commercio e, come si dice, buona la prima.
La svolta fu la vittoria all'International Wine Challenge di Londra: “Un successo pazzesco” ricorda Bernetti “Mai un vino italiano aveva vinto quel concorso, figurarsi un rosso marchigiano. Da lì, si aprirono nuovi mercati o meglio, si ampliarono. Ricordo che per anni avevamo mandato i nostri rossi all'importatore australiano e mai erano stati presi in considerazione. Dopo quel successo ci disse, quasi sorpreso, che non sapeva ne producessimo”. Da allora tantissime altre aziende introdussero un loro blend e le Marche si ritagliarono una posizione di prestigio in questo mercato. Oggi Umani Ronchi produce circa 20 mila bottiglie di Pelago: una nicchia rispetto ai 3 milioni di bottiglie aziendali. “Si era partiti con 10 mila e ci furono anche anni in cui ne producemmo 30 mila, ma si sa” spiega Bernetti“il mercato è in continua evoluzione e oggi probabilmente è il momento dei monovitigni. Ciononostante rimane la grande intuizione di Tachis che meglio di chiunque altro seppe interpretare i tempi. Sebbene - e questo voglio sottolinearlo - non fosse suo obiettivo inseguire le mode, ma semplicemente fare vini buoni e importanti”.
Turriga e Terre Brune: i grandi vini della Sardegna
Cambiando ancora regione e lasciando la terraferma, non cambiano gli attestati di stima nei confronti dell'enologo scomparso. Tachis amò tantissimo – ricambiato - la Sardegna. E una delle maggiori realtà vitivinicole dell'isola deve la sua fama proprio a lui. “Tachis ci ha praticamente preso per mano e guidato verso la grande qualità e i mercati mondiali” ci racconta Francesco Argiolas “prima di lui facevamo vino sfuso. Quando arrivò ci mise in guardia: 'se facciamo questo salto, dovete tenere la valigia sempre pronta'. E così fu”. La svolta si chiama Turriga, un blend di vitigni autoctoni: cannonau, bovale, carignano, malvasia nera. Lavoro opposto, quindi, rispetto a quello fatto in Toscana e nelle Marche. Era il 1986 e di quel vino vennero messe sul mercato solo 15 mila bottiglie (al prezzo di 12 mila lire; oggi costa circa 50 euro in enoteca). Ma quale fu l'episodio che ne decretò il successo? “Vinitaly 1992” risponde Argiolas“il vino vinse la Gran medaglia d'oro. Tutti si chiesero chi fosse quell'azienda sconosciuta sarda e vennero a farci i complimenti. Alcuni operatori londinesi chiesero anche di comprare l'intera produzione”. Proposta rifiutata, e nonostante ciò l'Inghilterra rimase sempre il primo mercato di riferimento, tanto che il lussuoso ristorante San Lorenzo cominciò a proporlo nella sua carta dei vini e il Turriga finì nei bicchieri di politici, come l'ex Presidente della Repubblica Cossiga, e star internazionali della portata di Madonna, Clint Eastwood e Sean Connery. Quest'ultimo restituì la bottiglia firmata alla cantina.
Vip a parte, in Sardegna, fianco a fianco a Tachis, lavorò l'enologo Mariano Murru che ne ricorda soprattutto “l'approccio scientifico rigoroso e la sua umiltà nel non imporre niente. Diceva sempre: 'Io proverei così'. E grazie a questo suo spirito di ricerca” continua Murru “abbiamo realizzato, proprio dagli Argiolas, un laboratorio di ricerca all'avanguardia. E poi abbiamo lavorato a diversi progetti regionali, Vinex e Convisar, con l'obiettivo di rivalutare tutta la viticoltura sarda e il Carignano del Sulcuis in particolare”.
Un esempio concreto in tal senso è il lavoro fatto alla cantina cooperativa Santadi, quella con cui Tachis continuò a lavorare fino a tempi recentissimi, praticamente fin quando le forze glielo hanno permesso. “Quando lo chiamai qui in Sardegna, lui era dagli Antinori” ricorda il presidente Antonello Pilloni “e da persona assolutamente corretta quale era, mi disse di chiedere al Marchese che, a sua volta, si dimostrò molto disponibile, con il patto che Tachis venisse da noi nel fine settimana”.
Così, negli anni '80, iniziò anche quell'avventura che portò non solo alla “creazione” di uno dei vini più rappresentati dell'isola – il Terre Brune (carignano 95%, bovaleddu 5%) – ma anche alla rivoluzione della viticoltura sarda legata ai suoi autoctoni. “Il Terre Brune fu il primo vino sardo barricato” continua Pilloni “e dalla critica ai mercati, il riconoscimento fu immediato. Il vino venne subito inserito, con i Tre Bicchieri, nella guida del Gambero Rosso che stava muovendo in quegli anni i primi passi. E poi si aprirono le porte dell'export. Sul nostro esempio, anche altre cantine sarde continuarono su questa strada. Non solo gli Argiolas dove Tachis fu consulente, ma anche quelle che ne beneficiarono in modo indiretto. E oggi noi, anche senza di lui, continuiamo seguendo il modello-Tachis e gli insegnamenti che ha lasciato in eredità al nostro attuale enologo Umberto Trombelli. Come Cantina Santadi gli dobbiamo molto, ma credo che tutta la viticoltura sarda gli sia debitrice per aver sostituito il concetto di viticoltura di quantità con quella di qualità”. Come si legge sull'home page del sito della Cantina “Caro dott. Tachis, grazie, semplicemente grazie”.
Nasce il vino A Giacomo: l'omaggio della figlia Ilaria
La figlia di Tachis, Ilaria, continua a portare avanti l'azienda di famiglia nel territorio del Chianti Classico, Podere La Villa. E, grazie, alla collaborazione con l'enologo ed allievo del padre, Markus Von Der Planitz, ha dato vita al vino A Giacomo prodotto in quantità limitata. Il debutto qualche giorno fa.
I vini di Tachis a Vinitaly
Anche Vinitaly – e non poteva essere diversamente – dedica a Giacomo Tachis una storica degustazione dei suoi vini. La più importante della sua 50esima edizione.“Il racconto di ciò che ha creato lo faranno quei produttori che hanno avuto l’intuizione, il privilegio e l’onore di lavorare al suo fianco” ha commentato il direttore generale di Veronafiere Giovanni Mantovani “Giacomo Tachis ha rappresentato il Rinascimento dei vini italiani e resterà per sempre nella Storia dell'enologia italiana e nei cuori di quanti lo hanno conosciuto”.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 25 febbraio
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