Non ha un percorso facile il trattato commerciale per il libero scambio tra Ue e Usa (Ttip-Transatlantic Trade and Investment Partnership) iniziato nel luglio 2013. Se da una parte i negoziatori, come la Commissaria europea al commercio Cecilia Malmström, considerano l’accordo “un’opportunità di rilanciare la crescita e creare nuovi posti di lavoro”, nella società civile di molti Paesi europei crescono le perplessità e le opposizioni. La riservatezza che ha caratterizzato gran parte dei 9 round negoziali svolti sinora, non ha fatto altro che aumentare la diffidenza. L’ultimo incidente di percorso risale a meno di un mese fa. Infatti il voto previsto lo scorso 10 giugno all’Europarlamento di Strasburgo sulla “relazione Lange”, dal nome del deputato presidente della Commissione per il commercio internazionale, nella quale si fa il punto delle trattative e si esprime la posizione del Parlamento europeo attraverso delle raccomandazioni, è saltato ed è stato rimandato a data da destinarsi. Sulla decisione pesano gli emendamenti presentati alla relazione, circa 200, così come la richiesta di voto separato e per chiamata nominale. Ma soprattutto pesano, e non poco, i due milioni di firme raccolte dalle associazioni NoTtip che contestano l’intero impianto dell’accordo.
Perché il Ttip?
L’obiettivo è quello di creare la più grande area di libero scambio del mondo attraverso l’integrazione tra i due mercati, Usa e Ue, riducendo o eliminando i dazi doganali esistenti, rimuovendo tutte quelle norme e quei regolamenti (sanitari, fitosanitari, ecc.) che attualmente limitano gli scambi commerciali. Per arrivare a raggiungere il risultato è necessario trovare una mediazione tra gli standard esistenti nei due Paesi. La preoccupazione di molti, non solo in Europa, è che in questo modo si abbassino le difese e si apra la porta a prodotti di bassa qualità (carne agli ormoni, Ogm, ecc.) sinora rimasti fuori.
Le perplessità
Dall’inizio le obiezioni, solo per rimanere nell’ambito del vino, sono state numerose. Per esempio, negli Usa le Denominazioni di origine non esistono, esistono solo dei marchi commerciali aziendali. Non solo ma mentre per noi, Chianti, Marsala, Champagne, Borgogna e altre ancora – complessivamente sono 17 in discussione – sono Indicazioni Geografiche protette che possono utilizzare solo i produttori di quelle zone, per gli americani sono semplicemente tipologie produttive e in quanto tali, usufruibili dovunque. Ma le differenziazioni sono sulla definizione di vino biologico oppure sul riconoscimento delle pratiche enologiche ammesse dall’Oiv (Organizzazione internazionale della vigna e del vino) a cui aderiscono 46 paesi del mondo. Nel 2001, gli Usa, non volendo accettare gli standard proposti dalle risoluzioni Oiv, vincolanti per i Paesi aderenti, hanno creato un’organizzazione alternativa, il World wine tradegroup (Wwtg) a cui aderiscono 7 Paesi. Insomma diversità di vedute e di impostazioni, di non poco conto che fanno riferimento a storie, tradizioni e culture produttive a cui non è facile rinunciare. La strada sembrerebbe più vicina per quanto riguarda l’eliminazione delle barriere tariffarie vere e proprie, la riduzione delle documentazioni richieste e in generale del carico burocratico con conseguente calo degli oneri economici che tuttora gravano sulle esportazioni.
I favorevoli
Paolo De Castro, coordinatore del Gruppo S&D (socialisti e democratici), sia della Commissione Agricoltura e Sviluppo rurale del Parlamento europeo sia per il negoziato di libero scambio Ue-Usa (Ttip), ricorda che “Non bisogna pensare solo ai rischi, ma anche alle opportunità, rispetto a un mercato Usa che conta 350 milioni di abitanti con un reddito pro capite del 50% più elevato di quello europeo. Sentiamo sempre dire che l'export è l'unica strada per crescere, gli Usa sono il nostro primo mercato e questo Trattato rappresenta un'occasione da non mancare”. Infatti a livello europeo il saldo della bilancia agroalimentare è positivo per l’Unione e nell’ultimo decennio è stata caratterizzato da una continua crescita. In particolare per l’Italia, il mercato Usa rappresenta la terza destinazione delle nostre spedizioni e alcuni comparti (vino, olio, formaggi, salumi e prosciutti, ecc.) l’Italia ha il primato delle importazioni. Resta però il fatto che gli ostacoli non tariffari ci sono (differenze di requisiti sanitari, ambientali, fitosanitari, di sicurezza alimentare, riconoscimento delle Do, ecc.) e limitano le nostre potenzialità.
Alessandra Lanza è la responsabile delle Strategie industriali e territoriali di Prometeia, la società di consulenza bolognese che per il Ministero dello sviluppo economico ha effettuato una ricerca sul possibile impatto del Ttip sulla nostra economia. “Secondo il nostro studio gli effetti dell’applicazione del trattato su tutti i valori dell’export italiani sarebbero positivi a partire da moda, agricoltura, meccanica, auto, alimentari e bevande, metalli, chimica, ecc. In modo particolare per quanto riguarda il settore agricolo” ci ha detto Lanza “nello scenario più ottimistico la crescita segnerebbe un +15%, nello scenario intermedio +8%, nello scenario più cauto +1,5%. Nell’alimentare e nelle bevande (settore di cui il vino fa parte; ndr), l’incremento nei tre scenari sarebbe rispettivamente dell’8%, del 5,5%, dell’1%. È ovvio che all’interno dei settori merceologici citati, gli aumenti possono essere distribuiti in modo diverso in quanto le aziende possono reagire alle opportunità offerte dal Trattato, in modo differenziato”. Anche l'Istituto Italiano per il Commercio Estero ha stimato che un ambizioso accordo Ttip potrebbe aumentare le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti di circa 5,6 miliardi di euro e creare fino a 30 mila nuovi posti di lavoro.
I contrari
Nel dibattito che si è aperto sul Ttip sono da segnalare anche alcune prese di posizione che hanno fatto molto discutere. Ad iniziare dall’americano premio Nobel per l’economia (2001) Joseph Stiglitz il quale durante una lectio magistralis tenuta alla nostra Camera dei Deputati ha dichiarato senza mezzi termini. “Penso che l’accordo di scambio che gli Stati Uniti stanno chiedendo all’Europa sia un pessimo accordo, e fareste bene a non firmarlo. Non si tratta di un accordo di libero scambio… gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio, gestione per gli interessi particolari degli Stati Uniti, e nemmeno nell’interesse dei cittadini americani”.
Anche un altro Nobel per l’economia come Paul Krugman non lesina critiche al trattato sostenendo che ormai le economie sviluppate sono tutte molto aperte e rispetto al passato hanno ridotto le barriere commerciali. L’accordo pertanto non inciderebbe tanto sul piano economico generale quanto sui marchi, sui brevetti et similaria a tutto vantaggio delle grandi imprese monopolistiche che li possiedono. Tra gli aspetti maggiormente contestatati dal Ttip la creazione dell’Investor-State Dispute Settlement (Isds) vale a dire un tribunale arbitrale privato che tratta degli eventuali contenziosi tra multinazionali e governi vede l’opposizione dello stesso Presidente della Commissione Ue Juncker, che ha dichiarato di non accettare che la giurisdizione dei tribunali degli Stati membri sia limitata dai regimi speciali (tipo Isds) sulle controversie con gli investitori.
I prossimi passaggi
Dal punto di vista della tempistica, la Commissaria Malmström stima che le trattative si potrebbero chiudere nel 2016. Intanto entro questo mese, a Bruxelles, si svolgerà il decimo round negoziale. Alla fine degli incontri, il testo dell'accordo verrà trasmesso ai governi dei 28 Paesi membri dell'Ue e al Parlamento europeo, ai quali spetterà l'approvazione. Vale la pena ricordare quanto ha scritto nella sua relazione Lange: “Il contenuto dell'accordo è più importante del ritmo con cui avanzano i negoziati”. È auspicabile sia così.
a cura di Andrea Gabbrielli
foto: NOAA via Wikimedia Commons
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 luglio.
Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui.