Fondazione Mach di San Michele all'Adige
A partire dalla Fondazione Mach di San Michele all'Adige, come ci spiega Marco Stefanini, responsabile della piattaforma di miglioramento genetico della vite. “Per ottenere delle specie resistenti” dice “è necessario avere una base genetica su cui lavorare. Per questo a San Michele abbiamo un vasta collezione di biodiversità, sia relative alla vitis vinifera, sia alle altre varietà”. Da questa base si procede al miglioramento genetico inserendo i geni di resistenza (anche attraverso mutazioni puntiformi) nelle nuove varietà. La scommessa è anche sulla durata, ovvero avere una resistenza prolungata ed efficacie anche rispetto alle modifiche del fungo nel tempo, secondo uno schema di piramidizzazione che crei problemi al fungo stesso nel superare i diversi livelli.
Al momento l'Istituto ha una collezione di 560 genotipi, che non presentano né peronospora, né oidio. “Ma non sono queste le uniche malattie per cui trovare una soluzione” continua Stefanini “stiamo anche studiando i geni di resistenza della Xiphinema index (vettore di virus) e della Xylella, così come di botrite, mal dell'esca e marciume acido”.
Guardando al futuro, quali sono le prossime frontiere della ricerca? “Tutto si muove verso la dimensione della sostenibilità” dice Stefanini. Ed è il parere diffuso anche tra tutti gli altri ricercatori. “Sostenibilità” continua “legata alla riduzione degli input necessari per arrivare alla produzioni. Che passi da genotipi più efficienti o da scelte particolari di portainnesti, il futuro deve essere sostenibile”. Secondo Stefanini lo studio sui vitigni resistenti, oltre alle potenzialità dal punto di vista organolettico, ha delle potenzialità in termini economici con una riduzione fino al 30% delle spese di gestione.
Università di Udine e dall'Istituto di Genomica Applicata
Gli ultimi vitigni arrivati sul mercato nel mese di agosto sono 10 varietà selezionate dall'Università di Udine e dall'Istituto di Genomica Applicata in collaborazione con Vivai Cooperativi Rauscedo. “Nella nostra ricerca” racconta Michele Morgante, direttore dell'Istituto friulano “Abbiamo prima studiato il genoma della vite per individuare i geni che controllano i caratteri di resistenza alle malattie. In una seconda fase abbiamo lavorato per ottenere nuove varietà resistenti. Come? Incrociando i cosiddetti genitori noti, cioè varietà tradizionali (Sauvignon, Merlot, Cabernet) a varietà che portano geni di resistenza. Ovviamente l'incrocio ha dato vita a migliaia di nuovi vitigni e tra questi - con un lavoro durato anni - abbiamo scelto i dieci con caratteristiche migliori”.
Oggi, ottenuta l'approvazione del Mipaaf, questi vitigni sono in commercio, e utilizzabili – almeno per il momento – per i vini Igt. Ovviamente, essendo resistenti, non hanno bisogno di particolari trattamenti, se non di preparati a base di rame. “L'obiettivo è riuscire ad andare sempre più verso un'agricoltura sostenibile” spiega Morgante. Per loro conformazione si tratta anche di vitigni resistenti alle basse temperature e per questo sono particolarmente inclini ai climi freddi del Nord ed Est Europa, rappresentando, oltre a un'alternativa per il mercato italiano, anche un'ulteriore apertura verso i mercati internazionali. Ma il lavoro dell'Università di Udine non si ferma qua. “Esamineremo nuovi incroci, ma credo che la vera sfida per il futuro della viticoltura sia quella di riuscire ad ottenere la resistenza senza modificare il vitigno di partenza, quindi senza incrocio, ricorrendo all'ingegneria genetica, in particolare alla cisgenetica”.
Attilio Scienza docente dell'Università di Milano, Dipartimento di Scienze Agrarie
Tema che chiama direttamente in causa, il professore Attilio Scienza che, con la sua lungimiranza, ci parla di come uno studio australiano fatto sul genoma umano con lo scopo di correggere l’alterazione genetica che provoca la deformazione dei globuli rossi dell’anemia falciforme, possa essere applicato anche alla vite per creare varietà resistenti alle malattie, portando l'Italia a diventare leader della ricerca. Sia chiaro, si tratta appunto di cisgenico che è ben altra cosa dal transgenico (OGM). In questo caso parliamo del cosiddetto genoma editing, tecnica denominata anche con l’acronimo Crispr, con la quale si possono sostituire tratti di Dna difettosi, utilizzando degli enzimi che i batteri impiegano per neutralizzare i virus. “La correzione del genoma” dice il professore “che va annoverata tra le new breeding technology (una sorta di microchirurgia), consentirebbe di operare sui geni di suscettibilità, la cui presenza è necessaria affinché si manifesti una malattia. L’inattivazione di questi geni porterebbe ad una pianta resistente. L’esempio più noto in tal senso è quello dei geni Mlo (Mildew Resistance locus O) la cui inattivazione conferisce resistenza all’oidio alla vite”. L’intervento è quindi comparabile ad una mutazione naturale, sull’esempio di quelle che fanno comparire improvvisamente su una vite che produce grappoli colorati, dei grappoli bianchi (Pinot nero>Pinot bianco). In questo caso, però, lo scopo è far diventare i vitigni italici resistenti alle malattie.
Univir 2020
Ma per rendere possibile questo progetto che renderebbe la ricerca viticola italiana leader nel mondo, è necessario un grande sforzo organizzativo ed economico. Da qui la proposta di Scienza che ha avuto il conforto di molti produttori italiani e del Mipaaf: “La creazione di Univir 2020, la rete degli enti di ricerca italiani e dei produttori di vino, di recente costituzione, rappresenta il primo passo per la creazione di un hub nazionale per coordinare tutti gli sforzi di ricerca. Per il finanziamento sono necessari circa 15 milioni di euro l'anno per almeno 5 anni. Si potrebbe quindi pensare a un contributo di scopo, applicando una tassa di 2 centesimi di euro per ogni bottiglia di vino prodotta in Italia (circa 2,5 miliardi l'anno), una cifra insignificante per i produttori, ma nella logica dei grandi numeri, decisiva per lo sviluppo della ricerca viticola italiana”.
Aziende e ricerca: Winegraft e i portainnesti M richiesti da Francia e Spagna
La ricerca sulle piante resistenti passa anche dai portainnesti. Se a fine '800 il cosiddetto “piede americano” ha salvato il vigneto europeo, dando vita a quella che oggi chiamiamo viticoltura moderna, oggi, a distanza di un secolo, una nuova ricerca italiana sta gettando le basi per la viticoltura post-moderna. La ricerca per ottenere dei portinnesti in grado di tollerare la siccità e resistere a elevati tenori di calcare attivo nel terreno, era stata avviata negli anni '80 da un gruppo di ricercatori dell'Università di Milano coordinati dal professor Attilio Scienza. L'iscrizione di quattro nuovi portainnesti della serie M nel registro Nazionale delle varietà arriva nel 2014, insieme all'esigenza di trasferire i risultati anche al mondo produttivo e trovare nuove risorse per andare avanti.
L'anello mancante è la nascita di Winegraft: una società di nove aziende vitivinicole italiane (Ferrari, Zonin, Banfi Società Agricola, Armani Albino, Cantina Due Palme, Claudio Quarta Vignaiolo, Bertani Domains Nettuno Castellare, Cantine Settesoli) che mette sul piatto mezzo milione di euro a supporto delle Università per il progetto che presenta un planning di sviluppo fino al 2030. E poche settimane fa è arrivato il riscontro internazionale con 600 talee partite dai Vivai Cooperativi Rauscedo (che ne detengono la commercializzazione in esclusiva mondiale) alla volta delle Università di Boredaux e Roja per sperimentarle nei loro territori. Una best practice di rapporto impresa-ricerca-mercato che fa bene alla ricerca italiana e la porta alla ribalta dell'attenzione internazionale.
a cura di Loredana Sottile
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Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 24 settembre
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