Fa decisamente paura al mondo vitivinicolo la perdita, senza possibilità di recupero, di oltre sette mila ettari di vigneto ogni anno. Un'erosione costante che potrebbe, a lungo andare, minare in modo significativo la competitività delle imprese italiane, preoccupate ulteriormente dal fatto che il nuovo sistema di autorizzazioni agli impianti, così come scaturito dall'Ocm vino, non lascia grandi spazi di manovra alternativi. Tuttavia, una strada possibile da percorrere è stata individuata dall'Alleanza delle Cooperative, che a Modena e Reggio Emilia ha tenuto la prima assemblea unitaria del settore vitivinicolo e ha lanciato la sua proposta. L'idea è quella di aumentare la superficie italiana a vigneto dell'1% (circa 6 mila ettari l'anno) sfruttando tutto il potenziale di crescita che le norme Ue consentono. Il risultato sarebbe un incremento del patrimonio nazionale, che ad oggi conta una superficie di 640 mila ettari, attraverso una distribuzione dei nuovi ettari sotto forma di autorizzazioni per nuovi impianti. È Adriano Orsi, presidente del settore vino di Fedagri-Confcooperative, a spiegare la ratio della proposta che tra qualche settimana arriverà sui tavoli del Mipaaf e del ministro Maurizio Martina: "Il vigneto Italia perde circa 7.000 - 8.000 ettari l'anno e se vogliamo mantenere un settore competitivo" dice Orsi "dobbiamo cercare di arrestare questo trend negativo e assicurare alle nostre cantine cooperative una sufficiente quantità di uva da lavorare. Potendo sfruttare, almeno per il primo anno, l'1% di crescita massima, eviteremo di mettere a rischio la redditività delle imprese che sarebbero costrette a fare i conti con un inevitabile aumento dei costi di produzione".
L'Alleanza delle cooperative agroalimentari associa 510 cooperative vitivinicole (165 mila soci produttori e 8 mila occupati), che producono il 52% della produzione vitivinicola italiana, per un fatturato di oltre 4,1 miliardi di euro. Tra le prime 20 aziende di vino italiane, nella classifica Mediobanca, ci sono otto società cooperative: Gruppo Cantine riunite – Gruppo italiano vini e Caviro (rispettivamente al primo e al secondo posto), Mezzacorona (5), Cavit (8), Gruppo Cevico (11), Cantina di Soave (12), La Vis (17) e Collis Veneto wine group (20).
Il vino cooperativo (che vale più della metà del totale prodotto) sa bene che non sarà facile raggiungere l'obiettivo, perché Bruxelles appare sorda alle richieste italiane. L'Italia, in fase di stesura dei regolamenti della nuova Ocm, aveva proposto alla Comunità europea di trasferire i diritti di reimpianto ancora in portafoglio fino al 31 dicembre 2020, per evitare la perdita di un potenziale produttivo di 50 mila ettari, corrispondenti ai diritti di reimpianto non ancora esercitati dai produttori. Invece, come ha sottolineato Ruenza Santandrea (Lega Coop Agroalimentare) "sembra sempre più certo che dal 1 gennaio 2016 i diritti di reimpianto ancora in portafoglio non potranno più essere scambiati, ma solo convertiti in autorizzazioni e solo dal proprietario stesso del diritto". E qui si innesta un ulteriore problema, che per l'Alleanza delle cooperative suona come un "campanello d’allarme". Nel nuovo sistema, l'autorizzazione al reimpianto potrà essere esercitata solo dal produttore che ha estirpato e non potrà essere trasferita ad altri produttori: "È evidente" è stato sottolineato "che si rischia la perdita di molti ettari qualora chi estirpa dovesse scegliere di non reimpiantare". Un'eventualità, questa, tanto più alta in quei territori in cui la maglia poderale è polverizzata e l'età media dei viticoltori elevata. Per ora, mentre manca poco tempo alla pubblicazione dei regolamenti comunitari, all'Italia resta il compito non facile di chiarire al suo interno alcune questioni: in che modo saranno distribuiti i 6 mila ettari di nuovi impianti; come si farà a non penalizzare chi vuole crescere; come assicurare che il meccanismo di assegnazione delle autorizzazioni sia snello e semplice, per evitare di 'bruciare' gli ettari messi a disposizione ogni anno.
E se autorizzazioni non fa rima con competitività, i due temi sono correlati. E l'assemblea di Reggio Emilia è stata anche territorio di confronto con big del mercato mondiale del calibro di Francia e Spagna. Due Paesi che sul rafforzamento delle forme di cooperazione tra produttori stanno pianificando il proprio futuro. L'interprofessione francese, in particolare, come illustrata da Thierry Coste (Coop de France), sta dimostrando come migliorare la coesione abbia diversi vantaggi: gestire meglio il rapporto tra mercati e livello delle produzioni, avere più forza contrattuale, remunerare i soci proteggendo la redditività. In Francia, la distribuzione dei vini si concentra per il 63% nella Gdo e per il 19% in hard discount; non solo: il 30% dei vini è esportato e la quota è in aumento. Ecco perché i transalpini, promuovendo la cooperazione, puntano a raggruppare l'offerta, avere le risorse per investire e competere meglio. L'Italia, dove la cooperazione è ancora "polverizzata", come l'ha definita nella sua relazione Denis Pantini (Winemonitor-Nomisma), ha lavorato bene sull'export (nonostante protezionismi, dazi e instabilità politica), ma è anche vero che i risultati migliori hanno riguardato soprattutto i grandi brand. Messaggio chiaro: il successo all'estero dipende da dimensioni aziendali, capitalizzazione e competenze. Caratteristiche che sono altrettanto fondamentali sul mercato interno, caratterizzato da un calo dei consumi fuori casa e dall'aumento delle quote di vendita in Gdo. E se il vino resta concentrato su questo canale, una maggiore dimensione competitiva dei produttori appare quantomai strategica.
a cura di Gianluca Atzeni
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 30 ottobre
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