A un certo punto sentirai il bisogno di un tovagliolo, ma sul tavolo non ci sarà. Sbircerai sui tavoli vicini, ti guarderai intorno. E infine lo vedrai. Un sacchetto di quelli da supermercato, nelle cui trasparenze intuirai la presenza di alcuni pacchetti di fazzoletti di carta da raffreddore e da semaforo. Un cartello scritto a mano indicherà che l’operazione pulizia non è gratuita ma costa 4 dollari a pacchetto. Ma siccome sono dollari di Hong Kong, nettarti la bocca e le mani ti costerà 50 centesimi di euro. E cederai al ricatto, convinto di aver fatto un buon affare.
Cena da Yat Lok: niente alcol, siamo cinesi
Questa potrebbe essere l'ordinario racconto di un ristorante cinese qualsiasi, di quelli sotto casa, di quelli da fame chimica alle 22,30. E tutto lascerebbe pensare a questo. Il locale si chiama Yat Lok, ha tavolini in formica sopravvissuti a mille battaglie, niente tovaglie (dei tovaglioli ho già detto), menu semplici prevalentemente in inespugnabili ideogrammi, una folla di clienti stipati come sulla linea rossa alle otto di mattina del lunedì.
I camerieri sbrigativi, il servizio inesistente, non si può avere alcol ma solo acqua, lemon tea e Coca-Cola (nemmeno Zero).
Menu stringatissimo
Questa potrebbe essere una ordinaria recensione di un ristorante cinese senza gloria se non fosse che Yat Lok la gloria ce l’ha, nella veste di quelle placche di metallo che stanno giusto un metro sopra il sacchetto-dispenser di Kleenex. Tu le conosci bene, sono rosse e hanno al centro un macaron. Questo locale di Stanley Street, una strada in salita nel concitato quartiere di Central, nell’isola di Hong Kong, ha una stella Michelin da almeno dieci anni. Una stella vera, luccicante e smaltata. L’ha guadagnata grazie a quella che alcuni considerano la migliore anatra arrosto dell’ex colonia britannica. Che è maledettamente buona, è vero.
Viene preparata sveltamente e magnificamente, croccante e sugosa, in un impiattamento scarno e instagrammafobico, e servita intera, a metà o in un quarto, per fami piuma. Accompagnata se si vuole da certo riso in bianco ospedaliero, da verdure stufate, da un piccolo assortimento di noodles e di zuppe. Se poi l’anatra non la vuoi, ecco il maiale arrosto, anche in versione BBQ (grandioso anche quello, va detto).
Il conto? Venti euro a testa
Tutto sublime e assai soddisfacente. Una volta uscito a panza piena penserai che è valsa davvero la pena di arrivare fin qui e sciropparti una fila infinita (ah già, non si prenota), dribblare gli orari per te incomprensibili (alle 21 tutti a nanna, astenersi pelandroni) e mangiare un’anatra stellata per il corrispettivo di 20 euro a persona, soft drink incluso. Ok, d’accordo, fantastico. Ma per conquistare le medaglie della Rossa francese non bisogna per lo meno rispettare certi standard di decoro? Almeno così credono molti chef italiani, che bramano la stella nei loro sogni agitati da cuochi e nel frattempo si sforzano di portare avanti i loro rispettabili ristoranti squadernando sui tavoli tovaglie fresche di lavanderia, le giuste posate e perfino, pensa un po’, dei tovaglioli.
La legge della Michelin non è uguale per tutti
La questione è seria. Abbiamo sempre dedotto che la stella non fosse affare per pizzerie per quanto eleganti, per quanto gourmet, per quanto di ricerca, per quanto destinazione di pellegrinaggi di “foodies”, come quelle di Renato Bosco, di Franco Pepe, di Francesco Martucci. La stella non si dà ai locali che “vale il viaggio” o almeno “vale la deviazione”? Gli stessi nostri cugini ci hanno sempre dimostrato che le nostre trattorie sono fantastiche, ma la stella proprio no. Nemmeno quelle dove non si trova un posto un mese prima, nemmeno quelle che danno gioia infinita, nemmeno Trippa di Diego Rossi, nemmeno l’Osteria della Villetta di Maurizio Rossi, nemmeno Tischi Toschi di Luca Casablanca. Certo non fanno anatre laccate, ma escogitano altre meraviglie. Puoi prenotare, il cameriere è gentile e informato, il servizio compunto, la lista dei vini curata e se ti cade la forchetta te ne danno una smagliante li lavastoviglie, non ti guardano storto indicandoti la vaschetta delle bacchette. Insomma evviva la stella che brilla accanto a un calendario di carta di riso, evviva la ristorazione democratica e sbrigativa, evviva il dilettante che gioca in Champions League, ma pure il nostro casual meriterebbe una sfilata alla fashion week. Ce lo meritiamo.