Un quartiere vibrante, anche se ormai inesorabilmente gentrificato. Un oste fisico e sorridente, che domina la scena. Un’atmosfera da Milano anni Settanta, jannacciana come il nome, quel Silvano a cui il medico-cantautore dedicò una delle sue canzoni più iperrealistiche (“Silvano, non valevole Ciccioli”). Piatti giusti, semplici e ben fatti.
Un bancone lungo e vibrante, vera spina dorsale del locale. Vini naturali, naturale. Prezzi sotto la media cittadina. Sorrisi, sorrisi, sorrisi. E, non ultimo, orari elastici, turni lunghi, a mezzanotte la festa è ancora in corso, in una città dove, come abbiamo scritto qualche tempo fa, gli orari dei pasti sono sempre più da Niguarda (che per chi non lo sapesse è un ospedale). Sono questi gli ingredienti per uno dei recenti successi più considerevoli della scena gastronomica di una Milano che – intanto – sembra aver perso quello slancio post-Expo.
“Amami, sdentami, stracciami, applicami. E dopo stringimi, dammi l’ebbrezza dei tendini”.
Silvano è stato aperto qualche mese fa, era settembre, a NoLo, in quella piazza Morbegno di bevute per strada e partite a ping-pong, tram che vanno piano e asfalto colorato di azzurro, verde e giallo, di bar Lgbtq+ e residenti che protestano per gli schiamazzi fuori orario. Un vecchio panificio dove Cesare Battisti, che con Ratanà ha di fatto inventato la trattoria contemporanea milanese, e Vladimiro Poma, che è l’oste di cui sopra, hanno creato un locale da chiacchiera e da scarpetta, dove i fornelli non ci sono e si cucina solo al forno. Non esattamente una scelta ma una necessità, vista la precedente destinazione d’uso del locale. Ma non è dai limiti che si impara a crescere?
In cucina c’è Carola Carboni, che si è adattata all’assenza di cucina da pentola e sciorina una carta lineare e stringata, di intingoli e dita, un “huggy food” con pochi eguali in città per qualità e affetto percepito: l’Insalata russa arrosto, che è in breve tempo diventata il piatto emblema della silvanitudine, è un manifesto di semplicità maliarda; poi un rustico Paté con saba e prugne, i magnifici Nervetti alla milanese, una Focaccia con mortazza e peperoni lombardi, certo Carpaccio di bue, la Lingua con salsa verde, il Brandacujun ligure con battuto ligure, il Pane con ragù che trasforma la scarpetta (migliore cibo non protagonista di ogni pasto) in un piatto vero e proprio, Trippa cozze e pecorino, i Carciofi sott’olio con acciughe, un appena più ardita Verza con pompelmo, noci e melograno.
Ai dolci, una Torta di mele davvero ziesca. Ma raramente mi è capitato di desiderare di ordinare tutto, il vero sogno del goloso, del pancia mia fatti capanna. A prezzi che vanno dai 5 ai 16/18 euro a portata si potrebbe davvero ordinare tutta la lista spendendo quanto per un menu degustazione di uno stellato. Il conto lo abbiamo fatto sul menu di Silvano da me consultato: 27 piatti, 217 euro pane extra incluso, a mettersi in quattro con stomaci mediomassimi si riuscirebbe tranquillamente nell’impresa.
Ma non è mica da questi particolari – che poi particolari non sono - che si giudica un ristorante, non è dai piatti e dal fatto che siano buoni. Di posti con tecniche migliori ce ne sono molti, prezzi decenti a cercar bene se ne trovano, l’inclusività non è mica solo di Silvano nel politicamente correttissimo NoLo, e certo un poster con la faccia di Pertini a pubblicizzare l’amaro Ricostituente (“Sandro subito!”) è abbastanza raro, ma non è nemmeno quello.
È che la cucina non è un algoritmo, altrimenti di Trippa a Milano ne sarebbero nel frattempo nati cinquanta e invece è rimasto unico. E ogni tanto si allineano i pianeti e trovi quasi tutto quello che puoi desiderare in un solo locale. Per questo mi sento di profetizzare che il successo di Silvano non finirà in pochi mesi, come spesso accade nella Milano da mangiare. E se mi sarò sbagliato, beh, picchiatemi solo negli angoli.