Nei menu vegetali del Reale mi è piaciuto tutto: ogni singolo piatto ma anche i percorsi di degustazione nel loro insieme. Non è solo una questione di gusti, ma di coerenza, di precisione di sapori, di tecnica e armonia, di aderenza completa tra idea e risultato. Niko Romito rappresenta un unicuum: profondamente abruzzese, pur senza mai chiamare in causa la retorica (neanche quella sana) del territorio, delle tradizioni, delle radici; rigoroso, essenziale alla vista, algido se non fosse così appagante al gusto, estremamente tecnico senza che la tecnica sia mai prevalente nel piatto come nella sua narrazione, pur se frutto di una ricerca del tutto originale nella sua complessità e codifica (la cui paternità gli si deve attribuire). Minimale e inaspettatamente intellegibile, nonostante non conceda mai ammiccamenti o scorciatoie, Romito punta tutto sul sapore e l'ingrediente. E sbanca. Sbanca perché il prodotto – nella sua essenza – lo capisce chiunque. Quel che cambia è il livello di comprensione di quel che c'è nei piatti, ognuno secondo la propria propria sensibilità, la cultura, l'esperienza, l'intuizione e la libertà di mettersi in ascolto, di leggere quel che si trova davanti, che è frutto di un lavoro orientato a far emergere nel modo più puro possibile i sapori – al plurale, non è un refuso – presenti in ogni ingrediente.
Romito rivela la complessità (della materia prima) e la presenta nella forma più semplice possibile; entra nel laboratorio di cucina per uscirne con un ventaglio di sapori e possibili applicazioni che convergeranno in un piatto. Dopo, solo dopo. Prima c'è la definizione di una tavolozza insolita, di un nuovo alfabeto rivelato da un'indagine meticolosa che lascia emergere l'inedito dietro il già noto. È scoperta, è riflessione, è sorpresa. C'è poi la questione della tecnica, così personale nel modo in cui diventa duttile al linguaggio estetico, destinata a fare scuola e creare un nuovo paradigma. Una forma espressiva potente ancorché mai urlata, presente con minuzia sempre più affilata negli anni e in un certo senso oggi ancor più libera di ieri nello spingersi in angoli prima inesplorati, ma sempre relegata nel dietro le quinte.
Credo che Romito sia – più di altri - l'espressione gastronomica di alcuni capisaldi dell'estetica novecentesca. A partire dal Benjamin de L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica: cosa è più replicabile (almeno in teoria) di una ricetta definita al millimetro, a parità di strumentazioni tecniche? Non è un cuoco di cotture all'impronta, Romito, e non ne ha mai fatto mistero, anzi pare sempre sottolineare come il cuore dei suoi piatti sia da nella fase di studio, ricerca e codifica.
In pratica però in questo processo creativo intervengono competenze, abilità, sensibilità, talento, a dare significato e necessità a quel che viene definito con precisione, senza mai cadere nella distruzione dell'aura data proprio dalla replicabilità. E questo perché il suo metodo non è solo funzionale al piatto, ma ne è parte integrante, ha un valore espressivo in sé, a tracciare quella che Jakobson definirebbe funzione poetica del linguaggio, dove poetico non è sinonimo di poesia (non lo è nemmeno per Jakobson), ma intercetta una certa tensione tra forma e contenuto, tra tecnica e risultato. Un po' come a dire che materia (ingrediente) e forma (procedimento) sono entrambi sostanza.