È una critica in prima persona, questa, perché credo che sia – anche – una questione personale. E riguardi strettamente aspettative e dna gastronomico, quello che come individuo porto con me, più che come bagaglio di esperienze, come codici estetici. Sia chiaro: non penso che quella italiana sia la cucina più buona del mondo, né che gli italiani abbiamo più educazione al gusto degli altri, credo però che spostandosi su un campo da gioco familiare – nella fattispecie i vegetali - il metro di giudizio di ciascuno possa cambiare.
Dunque se mangio dei fagiolini in uno dei migliori ristoranti del mondo, il Mirazur (premiato nella 50 Best nel 2019) che vanta un approccio a tutta natura e vari orti di proprietà, mi aspetto non soltanto i più buoni fagiolini della mia vita, ma qualcosa che avvicini all'idea platonica dei fagiolini. Quelli che crescono e si immolano nell'iperuranio dei vegetali. E che il viaggio nei frutti annunciato dal menu (uno dei quattro di ogni mese – un'enormità – ispirati ai ritmi della biodinamica: frutti, fiori, foglie, radici) sia un'immersione profonda e strabiliante in quanto la natura offre nel momento specifico in cui ho la fortuna di coglierlo.
Il sogno del Mirazur
Fortuna, sì, perché il Mirazur è un sogno, il servizio preciso, con un Damien Chevalet ipnotico e il sommelier che fa gioire gli ospiti, molti dei quali – nota bene - fuori dal circo dei gastrofissati. Gente comune, per quanto si possa definire comune chi è disposta a saldare conti da 500 e passa euro per un pranzo vista mare, con nessuna ossessione per la cucina, sembrerebbe, senza la stanchezza mentale dei troppi ristoranti provati, con il solo piacere del buono e del bello. Un bello semplice, immediato, elegante e per niente cervellotico (come si è rivelata la cucina). La vista da Mentone che affaccia sul quel mare di quasi-Liguria toglie il fiato che ci si trovi nella sala, nella cucina – che privilegio lavorare in uno spazio così! - o nel priveé sottostante con laboratorio e area per aceti e alchimie: “qui le fermentazioni non hanno senso: non siamo nei paesi del nord, non abbiamo la necessità di conservare i pochi ortaggi” spiega Luca Mattioli, italianissimo head chef del Mirazur. Abruzzese come lo è – d'origine – Mauro Colagreco. The big chef argentino che qui a Mentone, letteralmente a pochi metri dall'Italia, ha messo su la sua cittadella. C'è il main restaurant Mirazur (Tre Stelle, che probabilmente sarebbe anche Tre Forchette, ne siamo certi, se la guida Ristoranti d'Italia varcasse il confine), c'è Casa Fuego, grill argentino, la pizzeria Pecora Negra, l'orto di vicinato (Rosmarino a 4 minuti a piedi) e gli altri dove detta legge la permacultura: una natura vibrante, vagamente selvatica e ruffa che alimenta i suoi ristoranti e le mie aspettative. Sono loro ad aver innescato la delusione rispetto a una proposta buona, elegantissima, per lo più impeccabile. Eppure.
L'audacia del fagiolino
Eppure avrei voluto qualcosa di più rispetto all'abbinata gambero di San Remo melone, cetriolo, cocomero, con aguachile messicano (bello, fresco, efficace), o dal lobster pesca e spuma di verbena, (bello, fresco eccetera: come sopra) o ancora da quel pesce bianco con latte di mandorle (il piccione, no: era perfetto e basta). E soprattutto dai fagiolini, sottilissimi, colti al mattino del calibro giusto per il Mirazur (i più grandi vanno agli altri ristoranti), insieme a una salsa e a una generosa cucchiaiata di caviale che avrei preferito più audaci, coraggiosamente nudi: spavalda dimostrazione di quel che può fare un ristorante con un orto che regala prodotti come Cristo comanda. Perché sono proprio quei fagiolini che incontrano il mio dna gastronomico e su cui mi sento di poter calibrare la mia esperienza. E azzardare una critica.
La crisi della critica
Ripartiamo da qui e dalla critica: se la sua scomparsa anima il dibattito culturale, con le esequie della stroncatura gustosamente celebrate dal The Economist (tradotte da L'Internazionale), nel mondo della gastronomia se ne constata la completa assenza, per le ragioni che Nicola Perullo, che nella vita è professore di Estetica, ha ben analizzato qualche anno fa, nel libello Del giudicar veloce e vacuo (Ed. Estemporanee) in cui dice chiaro e tondo che la critica gastronomica non esiste come genere letterario, contesa e confusa tra giornalismo e cronaca, condannata a “velocità, vacuità, superficialità”, che della critica sono nemiche giurate. Quella che necessita di fermarsi fuori dal “chiacchiericcio dell'informazione quotidiana, della comunicazione come notizia, della retorica del giudicar veloce e aggiornato”, dai corridoi con le loro voci e dalle stanze affollate. Quella critica che impone anche la responsabilità di esporsi e magari prendere delle sonore cantonate secondo l'opinione comune e anche nei secoli a venire, un po' come quando Virginia Woolf disse più o meno che le opere di James Joyce erano soltanto fesserie.
La critica è soggettiva per questo opinabile
Perché la critica è una pratica soggettiva, diversa da classifiche e valutazioni estese e contrapposte che si basano su parametri il più possibile oggettivi (per cui è meglio parlare di recensione: re-censire rimanda alla valutazione, a un valore assegnato). Lo dice Perullo facendo riferimento a uno che sul tema ha qualcosa da dire, Immanuel Kant (sì, quel Kant, quello della Critica del giudizio), quando spiega che la critica è “comprendere le ragioni, le condizioni di possibilità o i principi per cui un fenomeno appare in un certo modo”. Appare, non è. Nulla a che vedere con l'oggettività poiché riguarda il soggetto e il suo sentimento di fronte un oggetto. Nel caso specifico il mio sentimento di delusione in uno dei ristoranti più buoni del mondo, di fronte a una cosa che mi aspettavo straordinaria (perché lo è stata per altri) e non si è rivelata tale, a una perfezione spesso nemica dell'emozione. Perché la sporcatura, la contemplazione dell'eccesso, il superamento ponderato del limite innescano vertigini che personalmente cerco in alcune esperienze, senza pretendere che lo facciano gli altri. Nel Mirazur speravo in un atto di coraggio. Il coraggio del fagiolino: nudo e senza caviale. Assumendomi, con questo, il rischio di dire un'emerita corbelleria (senza neanche essere Virginia Wolf).