“La piemontese è la cucina più buona d'Italia? Falso. È la più noiosa? Ancora falso”. È perentoria, Valentina Chiaramonte, siciliana trapiantata a Torino alla guida del Consorzio, una delle trattorie contemporanee più amate in Italia, Tre Gamberi del Gambero Rosso, in cui convivono tre anime: quella della famiglia Vergnano, quella piemontese, e quella della stessa Chiaramonte che al Consorzio ha mano e sguardo liberi, non fa vitello tonnato (qui i migliori della città) o insalata russa ma ha una proposta che ha sempre una nota pienamente locale. E proprio a lei – ma non solo a lei - chiediamo un'opinione sulla cucina piemontese: la migliore d'Italia, secondo quanto ha scritto Luca Iaccarino su Cook del Corriere della Sera, molto noiosa secondo Marco Drago che ha firmato un articolo sul Gambero Rosso.
Il valore della contaminazione
Parte da un assunto: la nostra cucina è frutto di contaminazioni, “non credo che la piemontese sia la migliore cucina italiana perché non credo ci sia una cucina piemontese, non credo proprio nella cucina regionale o in quella italiana: è frutto di una contaminazione mondiale. Senza, non avremmo avuto certi vegetali, alcune spezie, non so cosa avremmo mangiato. Pensa al ramasin, quella piccola susina meravigliosa tipica del luglio piemontese, il nome viene da Damasco, è stata portata dalla Siria dai frati benedettini, pensa alla cucina del Nord Italia che prende molto dalla Francia, a quella Siciliana che ha influenze mediorientali, un po' come nella zona di Marsiglia e della Francia del Sud. Come fai a parlare di una cucina regionale senza tenere conto di tutto questo? E come fai a parlare di una sola cucina piemontese? C'è quella collinare e vignaiola e c'è quella di montagna, c'è quella cittadina. Sono molte cucine, e sono molto ricche”.
Aggiunge un tassello Christian Costardi, piemontese di Vercelli, oggi a Scatto nelle Gallerie d'Italia: oltre all'influenza ricevuta dalla Francia, c'è anche quella della via del sale: “tra i piatti più importanti, uno ha il tonno nella salsa, l'altro sono le acciughe al verde che trovi in tutte le piole. È evidente che è una cucina molto ricca, abbastanza condita, e soprattutto di grande contaminazione”.
Il Piemonte si muove come un comparto regione, secondo lui, con una quantità di prodotti importanti da raccontare, ogni zona ha le sue tipicità ma molti piatti fanno ormai parte di un patrimonio condiviso su tutto il territorio: “Il fritto misto è più monferrino, la bagna cauda torinese, la finanziera nasce nella zona delle Langhe, i risotti a Vercelli, Novara, dove il riso veniva coltivato, anche se in realtà il risotto fa parte della cultura piemontese come il vitello tonnato, i peperoni in bagna cauda, il coniglio di Carmagnola declinato in tutti i modi, la lingua e le alte interiora o il bollito misto, dato che abbiamo questa questa grande tradizione di allevatori e di macellatori anche se ovvio che a Carrù c'è il bue grasso”.
Cucina piemontese, il ruolo della storia
Inutile parlare di più buona o più noiosa anche secondo il torinese di Giaveno Matteo Baronetto, da oltre 10 anni al ristorante Del Cambio, nuovo Tre Forchette per il Gambero Rosso e tra i più antichi del capoluogo. Parte proprio dalla storia per spiegare le molte sfaccettature di questa cucina: “È una cucina che ha radici molto profonde, è viscerale, bisogna scoprirla e apprezzarla e non rimanere in superficie. Prende spunto e nobilita la tradizione contadina e i prodotti della terra sia fuori città dove ovviamente c'era una cucina di prossimità, che a Torino, dove la cucina di corte poteva accedere al meglio di quel che c'era intorno... pensa solo che Stupinigi un tempo era una riserva di caccia. Qui c'è la tradizione borghese, quella aristocratica, l'eredità francese. E poi Torino è stata anche la prima capitale d'Italia”.
Questo spiega la diffusione di alcuni piatti in tutta Italia, aggiunge Costardi: “A Torino ci si incontrava per capire come fare a unire l'Italia, e lo si faceva solitamente all'interno di luoghi storici come il Caffè San Carlo o il ristorante Del Cambio. Chi veniva a Torino mangiava questi piatti e lo faceva conoscere anche nel resto d'Italia”. Quelli intramontabili che, aggiunge Valentina Chiaramonte, “fanno ormai parte della tradizione italiana più classica, soprattutto negli antipasti: vitello tonnato, insalata russa, la cucina piemontese più pop è buonissima e molto confortevole”.
C'è offerta perché c'è richiesta
La differenza, forse, la fanno i piemontesi secondo Baronetto: “C'è una cultura diffusa nelle persone che conoscono questa cucina e la sanno mangiare. In un certo modo si può dire sia una cucina che è ancora protetta: in Piemonte si può trovare ancora l'identità del territorio che non è solo tradizione ma è una cosa più profonda. È la cosa bella di essere conservatori”.
Conferma Christian Costardi: “in Piemonte si tende non a essere noiosi come qualcuno ha detto, ma essere molto rispettosi della tradizione tramandata di famiglia in famiglia, di casa, in casa e di ristorante in ristorante”.
È innegabile però che ci siano dei piatti che si trovano in tutte le osterie sempre uguali: “C'è offerta perché c'è domanda” replica, più reale del re, Valentina Chiaramonte: “Il pubblico cerca quello: sia il piemontese che da buon sabaudo ama la classicità del piatto, sia il turista. Una buona fetta di clientela vuole quella cucina tradizionale e tu non puoi negargliela. Anche perché i ristoranti sono delle aziende e devono stare sul mercato. Ma poi esistono realtà che hanno un'offerta diversa. Senza contare”, conclude, “che ci sono tanti piatti ricorrenti, ma anche mille sfaccettature, mille versioni di vitello tonnato o di bagna cauda, dipende da dove sei e dalla mano del cuoco. Come fai a dire che sono sempre uguali?”. Fine delle discussioni.