Niko Romito: “Nell'alta cucina abbiamo copiato quello che fanno gli altri all’estero, ma i fronzoli non sono più sostenibili"

25 Feb 2025, 16:57 | a cura di
L'alta cucina non è morta, al contrario, gode di ottima salute, dice Niko Romito. Che racconta come la sua cucina della verità parta dall'ingrediente ma non dimentica i codici del gusto italiani

Sembra morto... ma è solo svenuto, titolava qualche decennio fa Felice Farina nel suo esordio cinematografico. E così anche il tanto chiacchierato fine dining, cui qualcuno si affretta a dare l'estrema unzione, più che pronto a spirare, sembra piuttosto aver perso i sensi; o meglio aver perso il senso, in un panorama in cui spesso si confondono i mezzi con gli obiettivi, gli strumenti con il contenuto. Poi arriva uno come Niko Romito a riportare le cose a posto, con quella sua attitudine a codificare, trovare regole, misure e valori, in un percorso in cui forma e sostanza si stringono in un linguaggio estetico nitido, profondo che diventa metodo e manifesto.

L'alta cucina non è mai stata così bene

La cucina italiana non è mai stata così in forma, anche quella alta - dice Romito sul palco di Identità Golose - sempre che non si incappi in formule tutta scena e niente messaggio gastronomico. Che deve essere la sintesi di due elementi: identità territoriale e identità personale. «Abbiamo finalmente imparato a guardare indietro, alla tradizione, come una base non statica, ma dinamica» dice lo chef del Reale denunciando un errore di fondo: aver preso a modello tradizioni modi e consuetudini altrui, «abbiamo copiato, nel fine dining, quello che fanno gli altri all’estero», invece di usare l'enorme bagaglio delle nostre tradizioni che non è un patrimonio museale, non è un fossile, ma il punto di partenza per disegnare il futuro. «Penso questo sia l’inizio di una cucina di ricerca che guarda al passato e alla tradizione come base e stimolo per inventare la cucina del futuro».

Un'alta cucina pienamente italiana che trova in Fulvio Pierangelini il suo padre putativo per quella sua capacità di afferrare il gusto italiano e portarlo con sé senza mai tradirlo. «Rispettare l'essenza della nostra cucina significa trasformare, far evolvere, innovare e trovare una identità», dice e aggiunge: «Se avessi tempo farei una scuola di cucina classica per arricchire un mio linguaggio gastronomico e cercare in quel classicismo gli stimoli per il futuro, unendo le tecniche sviluppate in questi anni da autodidatta e prendere insegnamenti dagli spunti del passato. Guardare indietro e sintetizzare i miei processi di trasformazione mi aiuta ad andare avanti, cercando maggior pulizia nei piatti». Eliminando il superfluo.

«I fronzoli dei piatti non sono più sostenibili» dice (e forse no lo sono mai stati) e lui lo ha dimostrato nel corso di una lunga e felice carriera in cui non ma mai ceduto alla tentazione di ammiccare, di essere men che meno che necessario in ogni suo gesto da cuciniere riflessivo e ascetico. Non è una cucina istintiva, la sua, ma una pratica che si nutre di continue prove, studi e prove calibrate per togliere e scarnificare, sbagliando – «mi riesce un piato su dieci», ammette abbracciando una poetica dell'errore che è tornata spesso nel congresso – provando eliminando, correggendo per lasciare nel piatto solo l'essenziale, o meglio l'essenza, per usare una parola che è cara a Romito, come è caro il concetto di assoluto. Concetto gastronomico ma anche ideologico.

Assoluto di cipolle

La rinascita della materia prima

La sua prospettiva guarda al valore intrinseco e profondo della materia prima – da sempre suo faro guida – cui ha sempre un rapporto mai reverenziale. «Non sono d'accordo con chi dice che per rispettare la materia prima bisogna lavorarla il meno possibile, io la distruggo e se in bocca riesco a ritrovare l'essenza di quell'ingrediente posso dire di averla esaltata». Così il prodotto nasce di nuovo, o meglio nasce nuovo grazie a un approccio maieutico - «Mi piace ricostruire la materia in una forma più elevata» commenta - talvolta pare voler riorgarizzarne gli elementi gustativi che la compongono, facendo emergere sapori abitualmente celati. Come la liquirizia nel famoso carciofo e rosmarino del 2013.

Foglia di broccolo e anice Reale | Casadonna Niko Romito Foto Andrea Straccini

Foglia di broccolo e anice Reale | Casadonna Niko Romito Foto Andrea Straccini

«Il mio lavoro è scartavetrare e scoprire aspetti nascosti nella materia prima» dice, come quando – nel lavoro sulle foglie - tira fuori il potenziale inespresso di un ingrediente domestico, trascurabile all'apparenza, ma impreziosito da un lavoro di trasformazione che non lascia intatto ma valorizza anche aspetti nuovi. Per Romito avere «la migliore materia prima, accostarla in modo insolito camuffarla denaturarla» non basta; lui polverizza, distrugge e poi ricostruisce l’ingrediente che si ritrova al palato in forma differente. «Ho così evidenziato e portato alla luce l’anima della materia prima». In questo modo pesca quell'essenza che «racchiude due concetti che amo molto: bellezza e verità. L'essenza è qualcosa che resta stabile anche in movimento, è un assoluto che caratterizza un ingrediente nelle diverse espressioni».

Il suo modello prevede una codifica che consente allunghi da centometrista e ritmi da maratoneta: «quando realizzo un piatto, cerco il potenziale di quel piatto per il futuro». Il lavoro diventa una tecnica che si può applicare anche in altri piatti, in altre cucine e altri modelli di ristorazione. «Un tempo ragionavo sui piatti in termini di atto, ora in termini di potenza» spiega aristotelicamente. Nella sua cucina della verità parte dal codice e il gusto italiano, mette a nudo un ingrediente, e un solo principio: «Il piatto o è fatto bene o è fatto male». Poche storie.

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