Croccantini all'esterno, morbidi dentro, intensi il giusto. Realizzati con carne sfilacciata a mano e accompagnati da una leggera maionese allo zafferano. I mondeghili del 10_11 (il ristorante & bar del Portrait Milano) raccontano da soli il ritorno della cucina milanese dai Bastioni alla Circovalla. Fuori porta non farebbe notizia: decine di locali – pochi eccellenti, tanti mediocri o finti – campano proprio con i residenti sotto la Madonnina in cerca di emozioni “veraci”. Invece ora le polpettine tipiche sono tendenza, sia servite in accompagnamento ai cocktail del cinque stelle lusso che nel cuore del cuore della città.
Finger food che risalgono al Medioevo, proposti alla gente che piace e si piace: locale, italiana, straniera. Impensabile sino a qualche anno fa, come ricorda Diego Abatantuono che sulle polpette (non classiche, va detto) ha creato una catena di locali. «Insieme al nonno, andavo al solito trani del Giambellino (così i milanesi di un tempo chiamavano i bar più semplici per via dei proprietari e del vino alla mescita, quasi sempre pugliesi, ndr): rosso sfuso per lui e un gran piatto di mondeghili per entrambi. Era la mia felicità e quella Milano che ho sempre amato» dice con passione. Può sembrare un paradosso ma non lo è: nella città che ha ritrovato dopo il silenzio della pandemia quel ruolo di centro internazionale, anche per il cibo, è tornata forte la voglia dei piatti milanesi.
Mondeghili, risott giald e costoletta
A partire dall’eterna trimurti meneghina: i già citati mondeghili, il risot giald (quello con lo zafferano) e la costoletta (qui le migliori di Milano secondo noi). Ricette che portano storie e leggende non rinchiuse nel territorio, a conferma che la contaminazione – attualmente espressa da ristoranti etnici a livello europeo – qui è sempre esistita. I mondeghili arrivarono nel XVI secolo con gli Spagnoli, a loro volta influenzati dalle palline di carne fritte degli Arabi.
Lo zafferano nel risotto è figlio invece dell’intuizione di un vetraio della Fiandra che lavorava al Duomo – si dice – anche se più facilmente arriva dalla cucina araba ed ebraica. Quanto alla costoletta (di vitello, sia chiaro) si continua a discutere se siano stati i cuochi milanesi a ‘migliorare’ la Wiener Schnitzel portata qui dagli austriaci o se loro ce l’abbiano copiata. Sta di fatto che il feldmaresciallo Radetzky se la faceva preparare (rigorosamente) nella variante “alta” dall’ultima amante, la bella ex-lavandaia Giuditta Meregalli. Un cognome a prova di lombardità.
Il passato che ritorna
Questo è il passato. Che ritorna: «Perché, in generale, c’è la voglia ritrovata della cucina classica, a partire dalle specialità regionali che non trovano spazio nelle carte dei locali importanti in quanto romperebbero la filosofia creativa», spiega Alberto Tasinato, patron di Alchimia e Locanda della Scala. In entrambi i posti, con pubblico e prezzi differenti, risotto giallo e costoletta non mancano mai: «In omaggio alla città e perché funzionano, il 50% di chi siede li ordina», aggiunge.
A vederlo bene, è un ritorno che deve il suo humus favorevole all’Expo del 2015: lì si è iniziato a capire che l’accantonamento di tutto quanto era Vecchia Milano, tra gli anni Ottanta e Novanta, si era rivelato un grosso errore. In quel periodo, persino le trattorie di nuova apertura non si cimentavano nella tradizione ma facevano creatività, magari con ingredienti del territorio ma guai a parlare di cassoeula (abbiamo selezionato i migliori ristoranti a Milano che la preparano) o ossbus. Roba da vecchi, roba da periferie.
Poi l’Expo ha riportato il desiderio di raccontare quello che eravamo, favorito anche da un turismo diverso: non sempre si è lavorato in modo lucido, si è persino utilizzato il dialetto per insegne dove manco si sapeva dell’esistenza di una cucina milanese e si servono dim sum e birrette.
Uno dei grandi patron di Milano, Luca Guelfi che in carriera ne ha aperti 25 di locali (e non solo nella città natale) non poteva tirarsi indietro: nel 2021 ha lanciato Dal Milanese, un format con due sedi a Milano (in viale Premuda e al Teatro Arcimboldi) e una, recentissima, nientemeno che a Los Angeles. Niente mobili della nonna ma ambiente Milano da Bere, curatissimo nei dettagli.
«È una reinterpretazione nell’anima più che nella forma dello spirito delle grandi trattorie alla moda – dice – quindi insieme ai piatti della tradizione come il riso al salto o l’ossobuco regolamentare, il menu prevede anche il vitel tonné o il filetto al pepe verde. Ho un pubblico di tendenza che gira il mondo e ama il buon cibo, ma vuole stare prima di tutto bene cercando il mood giusto e la gente giusta. Mai dimenticare che Milano non è solo questo ma cercherà, sempre, anche questo».
La svolta nell’ultimo decennio
Rivedendo freddamente l’ultimo decennio non c’è dubbio che un punto di svolta sia rappresentato dall’apertura del Ratanà, zona Isola. Splendida villetta in stile Liberty che segna il confine tra la skyline di Porta Nuova e le nuove strutture di un vecchio quartiere in una gentrificazione quasi completata. Ma quando aprì nel 2009, in un mezzo deserto, sembrava una provocazione lontana dal centro, mezza follia.
«In effetti, eravamo pieni di dubbi pure noi – racconta Cesare Battisti, milanesissimo chef-patron – ma tutto ha funzionato, perché abbiamo sì rispettato la tradizione servendoci della migliore materia prima, ma non ci siamo ‘bloccati’: la nostra cucina quindici anni fa era meno evoluta se paragonata a quella attuale. Ecco perché dico sempre ai collaboratori che occorre studiare il passato e riproporlo al meglio, soprattutto nei piatti storici come il risotto o la costoletta».
Non a caso, Battisti – insieme al giornalista Gabriele Zanatta – si è cimentato in un ricettario – Cucina Milanese Contemporanea – uscito nel 2020. È d’accordo sullo studio anche Davide Oldani che al D’O di Cornaredo ha dipinto piatti quali Zafferano e Riso alla Milanese e la Costoletta e Milanese al Cubo, in cui emerge il richiamo al primo Maestro. «Marchesi ci ha insegnato che non ha senso giocare sulla milanesità pura, in difesa, ma piuttosto bisogna mettere mano con intelligenza e classe alle ricette iconiche. Una bellissima sfida per i giovani cuochi, tanto più se sono nati in zona» sottolinea lo chef.
Lo spirito delle trattorie
Uno di questi, Federico Boni, gestisce il locale milanese del momento: Trattoria Sincera, che in pochi mesi di apertura è diventato uno dei simboli del vivace quartiere di Lambrate. Non ha avuto maestri, né arriva da una famiglia della ristorazione e ha creato un posto di forte identità.
«Conservare le ricette è un obiettivo, ma poi c’è lo spirito delle trattorie che non dobbiamo perdere. Quelle contemporanee fanno cucina creativa, servono l’idea di uno chef, di un prodotto. Io invece voglio rifare le ricette di mia nonna che non usava certo i pistilli di zafferano e faceva i rognoni trifolati».
Trattoria Sincera ha anche quell’aria (e la posizione: in periferia) che favorisce la sostanza e non il glamour delle osterie all’Isola o in Porta Romana. Prova ne sia il costante successo della Trattoria del Nuovo Macello, storico ed eccellente locale tra la Circonvalla e viale Mecenate: luogo suggestivo che fra cinque anni festeggerà il centenario di attività ed è in mano alla stessa famiglia dal ’59. È il barometro che indica la passione per la cucina locale: recentemente ha introdotto un degustazione a 50 euro focalizzato sui piatti classici tra cui la ‘mezza’ costoletta del Nuovo Macello, cult per chi la ama.
«Abbiamo sempre avuto un pubblico fedele alle nostre specialità, ma c’è un interesse in aumento. Il nostro degustazione piace anche perché segue un concetto di leggerezza che non è proprio della cucina milanese ma più che mai necessario, anche considerando i cambiamenti climatici. 20-30 anni fa, faceva freddo come minimo per quattro mesi all’anno e quindi si sentiva l’esigenza di piatti intensi, più ‘caldi’ come la cassoeula o il rustin negàa. Quest’anno, per esempio, l’autunno è iniziato ai primi di novembre e lo si sente già negli ordini dei clienti» dice Giovanni Traversone, chef-patron della trattoria di via Lombroso.
La fine inesorabile di un’epoca
Di sicuro, nonostante il grande interesse, non tornerà più l’epoca dei ristoranti classici, della buona borghesia, dove la cucina milanese era il cuore dell’offerta con tanto di riconoscimenti delle guide. Posti come Boeucc, La Scaletta, Alfredo Gran San Bernardo (dove il leggendario cuoco Alfredo Valli si faceva consigliare da Gianni Brera) sono finiti in seconda fila o diventati eclettici. Era inevitabile, forse. «È una questione di tempi diversi ma anche di location – dice Francesco Mascheroni, executive chef di Armani Ristorante – Noi proponiamo il risotto e la costoletta al Bamboo Bar, con successo, e non al ristorante perché sarebbero improbabili nella filosofia di fine dining che stiamo seguendo. Non si tratta di snobismo ma di un ragionamento lucido pensando ai luoghi e alla clientela».
È sostanzialmente d’accordo Luca Sacchi, head chef di Cracco in Galleria. «Come lombardo di Abbiategrasso, sono felicissimo di questo ritorno dei piatti che amo sin da bambino – sottolinea il braccio destro di Carlo Cracco – ma è evidente che per loro natura saranno un patrimonio di bistrot e trattorie, fermo restando che nella nostra carta non mancano il Riso mantecato allo zafferano con midollo alla piastra come il vitello alla milanese. Guardando al futuro, penso che ci siano margini enormi sul fronte della migliore gastronomia milanese: quella degli aspic, dei paté, delle terrine. E un tema non semplice, dal punto di vista tecnico e storico, ma fantastico che al ristorante abbiamo iniziato a rivisitare»
Il nuovo corso della cucina pop
Che la gente apprezzi il nuovo corso lo dicono i numeri. I fratelli abruzzesi Dante e Beppe Di Paolo, alla guida del gruppo di A’ Riccione, hanno avuto il merito di riaprire – con un’eccellente ristrutturazione – lo storico Berti, a pochi metri da Palazzo Lombardia, e viaggiano sui 300 coperti al giorno. «È stato un omaggio alla città che ci ha accolto negli anni Novanta, ma anche la vocazione alla carne tipica della nostra regione di origine: così a fianco di una proposta con i migliori tagli alla griglia o serviti crudi, abbiamo deciso di dare spazio ai piatti milanesi, con un successo sorprendente. E’ bellissimo vedere famiglie, giovani e giovanissimi che soprattutto nel fine settimana riscoprono, insieme, i sapori di un tempo» racconta Beppe Di Paolo. La sensazione diffusa è che ci siano ulteriori margini di crescita. È pronta la Trattoria del Ciumbia, il terzo locale di Triple Sea Food, il gruppo che ha come socio di maggioranza Leonardo Maria Del Vecchio jr. Un locale dove riscoprire la cucina milanese ma bere anche un drink, tra velluti blu e moquette, al 32 di via Fiori Chiari.
«Dopo aver aperto Vesta e Casa Fiori Chiari, posti di immediato successo, abbiamo scelto ancora Brera perché innamorati del quartiere, l'unico a Milano che sia residenziale e turistico al tempo stesso. Poi in una via che ospita una varietà di cucine diverse non poteva mancare una proposta di stampo locale e tradizionale» spiega Davide Ciancio, Ceo e Co-founder del gruppo. Si sente aria fresca, del resto Milano è sempre stata e sarà sempre il contrario di un museo impolverato. «Se te se moeuvet mai, spetta minga che te rusen»: se non ti muovi mai, non aspettarti una spinta. Ecco.