Sapessi com’è strano andare al ristorante a Milano. Il capoluogo lombardo, che ama considerarsi l’avanguardia italiana in quasi ogni campo dello scibile umano, si allaccia sprezzantemente il tovagliolo al collo e rivendica il primato anche per quanto riguarda il cibo. E con qualche ragione: la scena meneghina è da qualche anno, diciamo a spanne dall’Expo del 2015, la più esuberante d’Italia. Aperture di cui si parla molto, chiusure di cui si parla poco, tanti chef stellati con residenza altrove che si fanno la seconda casa in riva ai Navigli con operazioni di stampo bistronomico, format che si impongono alla velocità della luce. Se New York è la città che non dorme mai, pare proprio che Milano sia quella che non digiuna mai.
Un ristorantificio di nome Brera
Eppure non è tutto tartufo quello che profuma. Di recente anche Marco Ambrosino, chef di Sustànza a Napoli, che a Milano ha lavorato per qualche anno da 28 Posti sui Navigli e ha fatto ritorno in Campania per dare più spazio alla sua idea diremmo socialista del mangiare, ce lo ha raccontato in un’intervista pubblicata sul nostro sito. «A Milano – sostiene lo chef procidano – si sta imponendo il modello per cui i grandi gruppi hanno una potenza di fuoco e aprono locali in serie a Brera che corrispondono a format tutti uguali. Sei o sette anni fa andava il piccolo bistrot con i vini naturali, oggi è tutto una finta trattoria milanese». Un meccanismo per cui «quando le cose si fanno a Milano hanno sempre un richiamo nazionale e qualsiasi cosa si auto-vanifica in un discorso corrente, si perde l’autenticità».
Se la vecchia trattoria diventa un cliché
Ma quindi esiste un sistema Milano? E in che cosa consiste, di grazia? Partiamo dal fatto che negli ultimi anni sono emersi dei veri e propri formati copia e incolla, di dubbia credibilità. Quello più ricorrente adotta gli stilemi della vecchia trattoria milanese, plastificati in una confezione che solo a uno sguardo distratto può apparire attendibile, che attira i turisti e quei milanesi mossi più che dalla vera cotoletta alla milanese o dal vero ossobuco (ma qual è, poi?), dal desiderio di andare nel posto di cui tutti parlano, magari documentando l’escursione con fotografie da postare sui social. Una FoMO gastrica, la paura di essere tagliati fuori dal mainstream.
La cucina italiana che viene dalla Francia
Ancora più bizzarra l’operazione messa in piedi da Big Mamma, il marchio pensato qualche anno fa da due parigini innamorati della cucina italiana, Tigrane Seydoux e Victor Lugger, che partendo dalla Ville Lumière hanno creato un gruppo di locali informali ispirati alla cucina italiana. Fatti loro, fin quando i due non hanno deciso di sbarcare a Milano con Osteria Gloria sempre in Brera. Un locale che farebbe felice il professore Alberto Grandi, quello che sostiene che la Carbonara è una ricetta americana e che il Parmesan del Kentucky è più autentico del Parmigiano Reggiano emiliano, perché propone un’italianità di ritorno, che in questo caso è addirittura immaginata. L’Osteria Gloria è locale eccessivo, con una certa dose di kitsch, che propone in menu delle Crocchette di vitello tonnato a 16 euro, dei Pici al cacio e quattro pepi a 17 euro e un Filetto alla Rossini Casimir a 39. Se non altro qui c’è più allegria e non si gioca sul cliché della milanesitudine a tutti i costi. Ma la sensazione è che potresti essere ovunque, a New York come a Berlino. Dice: è sempre pieno. Ma qui mettiamo in discussione il valore culturale di un modello di business, non la sua efficacia.
La tavola ai tempi di Instagram
Negli ultimi mesi a Milano hanno aperto numerosi posti che puntano solo sull’instagrammabilità. Sotto il vestito niente, per citare uno slogan da Milano da bere, epoca che sembra tornata decisamente di moda. Sogni, in un ex asilo ottocentesco dalle parti di Porta Genova, aperto dall’imprenditore del retail Claudio Antonioli, è un luogo di indubbio impatto estetico, ma la cucina non ha slanci, il menu offre Orecchiette con cime di rapa e Sogliola di Dover dorata e dei semplici Spaghetti alle vongole con bottarga di muggine costano 43 euro. E provate a prenotare: sarete respinti con perdite. Il 10_11 del Portrait in zona Montenapoleone, l’albergo dei Ferragamo che ha ridato vita al vecchio seminario arcivescovile, a quasi due anni dall’apertura ha rinunciato definitivamente a ogni ambizione gourmet e punta su un bistrot che lavora come una macchina da guerra. Il piatto più celebrato è la Pasta in bianco (talmente condiviso da essere stato ribattezzato Posta in bianco), un pugno di fusilli magnificamente conditi ma che costano 26 euro. Meglio, alla fine, il Pollo alla cacciatora a 29, anche se sui social gli animali da cortile spostano poco. Appartengono a questa schiera anche View di Roberto Okabe, Domò del gruppo romano guidato da Massimo Sun e Flaminia Ceccarini.
Alla conquista di Milano
Altro caso di scuola è quello di Milano Restaurant Group, il gruppo che fa capo ad Alberto Tasinato e che segue una filosofia diversa: aprire nuove insegne o rilevarne di vecchie un po’ fané per creare una galassia di locali nelle zone più strategiche di Milano. Tutte leggermente differenti ma con il comune intento di essere ciascuno la voce di una piccola enciclopedia gastronomica. Dallo stellato L’Alchimia, punta di diamante di MRG, fino alle Locanda della Scala e Sempione e alla Cantina della Vetra, tredici locali per un totale di 1.559 coperti che costituiscono il più grande ristorante diffuso della città.
«Io non criminalizzo la ricchezza, ma così la ristorazione a Milano diventa comprare una scatola di lusso e metterci qualcosa dentro», dice Ambrosino. E sembra questo il destino del mangiare a Milano, una gentrificazione gastronomica che eleva il popolare a categoria dello spirito, lo svuota di significato e lo mette in bella copia senza lo straccio di un pensiero. Manierismo estetico, gioco di slogan ed etichette: locande, trattorie, cantine, taverne, osterie che nulla hanno delle definizioni che corrispondono a queste voci su qualsiasi vocabolario.
Omologazione dell'offerta milanese
Questa omogeneizzazione dell’offerta milanese, spalmata verso il basso come linguaggio e verso l’alto per i prezzi, questa perdita di valore semantico di certe fascette che bene o male per decenni hanno orientato il consumatore si insinua in un momento di stanchezza del mondo del fine dining, che in effetti negli ultimi due anni ha fatto registrare le sole novità di Verso dei Capitaneo, di Andrea Aprea e del niederkofleriano Horto. Il fine dining ha prezzi monumentali e cerimoniali ingolfati, e l’unica alternativa che Milano sembra aver escogitato sono formule in ciclostile: design magniloquente, proposte gastronomiche pavloviane, un pizzico di spettacolarizzazione che provvede a compensare l’assenza dei fondamentali. In questo modo il mangiare diventa un atto a-politico, poveri noi. Le nuove generazioni, quelle che non hanno problemi di portafoglio, cresceranno pensando che le “vera” cucina di Milano sia un’entità stilizzata, un contenitore riempito di concetti astratti come condivisione, sostenibilità, e che abbia davvero un senso giocare sulla boutade della tradizione che dialoga con l’innovazione. Aiuto!
Le vere trattorie contemporanee
Qual è la soluzione a questo budello in cui la scena gastronomica milanese sembra essersi infilata? Sta nelle persone. I posti che esibiscono un’anima di sana e robusta costituzione si identificano tutti con un oste che gioca a tutto campo: Diego Rossi di Trippa, Enricomaria Porta dell’Osteria alla Concorrenza, Vladimiro Poma di Silvano (l’unica apertura degna di nota degli ultimi dodici mesi a Milano), Gianluca Ladu di Vinoir, Vincenzo Gautieri di Ciz, Angelo Bissolotti di Osteria del Treno, Roberto “Lo Smilzo” dell’impagabile Osteria alla Grande di Baggio rappresentano tutti, ciascuno a suo modo, la dimostrazione che essere il format di se stessi è l’unica strada per la felicità gastronomica.