McDonald's apre a Roma, davanti al Mattatoio. A guardare bene qua e là gli indizi c'erano tutti, un foglio attaccato alla bell'e meglio per gli addetti alle consegne, un cartellone pubblicitario posizionato strategicamente, ma soprattutto gli annunci sui siti specializzati nella ricerca di personale per una nuova apertura nel quartiere di Testaccio. Lo spazio è quello di via Galvani, appena fuori dal mercato, unico esperimento davvero riuscito a Roma di rilancio dei mercati rionali, in cui c'è una felice convivenza di banchi di vendita alimentare e offerta gastronomica, corner di accessori, abbigliamento, libri e servizi che ne fanno un luogo animato in ogni giorno e fascia oraria di apertura. Proprio qui, dove c'è stato Roadhouse, compaiono i due archetti dorati, simbolo del padre di tutti i fast food.
Big Mac e Sundae, dunque, andranno a sostituire un'offerta più o meno simile, appena superiore secondo la classifica stilata dal super chef Heinz Beck che qualche tempo fa assegnava - dopo una lunga sessione di assaggi - una valutazione di 70 centesimi a Roadhouse (fast food di lusso parte del gruppo Cremonini) e 68 a McDonald's. Quindi nei fatti, nessuno stravolgimento al tessuto gastronomico del quartiere che non sia già avvenuto anni fa. Ma qui l'impatto è molto più alto, visto che il mercato è fatto anche di simboli e di segnali.
Cosa ci dice l'apertura di Mac Donald's nel cuore della romanità? Innanzitutto che niente è inviolabile e che il soldo ha ragioni che la ragione e il cuore non intendono. Ma forse anche che una difesa a spada tratta fatta solo di pancia e polemiche, senza azioni concrete a tutela dei piccoli operatori di un mercato molto competitivo, lascia il tempo che trova, infine che non è detta l'ultima parola, in fondo già prima di Mac hanno gettato la spugna altri che hanno provato a competere con l'offerta del vicino mercato: i panini con l'allesso di Mordi e Vai, lo street food di Food Box, l'ottima pizza al taglio di CasaManco e gli altri operatori.
Mac e Roma: una storia controversa
Non è la prima volta che il Big Mac punta al cuore capitolino, sin dalla sua prima apparizione nel secolo scorso, in quello considerato come il primo Mac in Italia (benché sia stato preceduto da uno a Bolzano), a un passo da piazza di Spagna, accompagnata da polemiche e ostilità e la presa di posizione di nomi noti come Claudio Villa, Renzo Arbore, Valentino Garavani che ha il suo quartier generale a Palazzo Mignanelli, qualche passo da Piazza di Spagna. Anche allora Mac conquistava un simbolo, in quel caso della Roma monumentale, quella ritratta nei film e nelle foto dei turisti che affollano la scalinata. Ai tempi il fast food voleva entrare in un mercato, acchiappando gli stranieri di passaggio nella città che già avevano dimestichezza con la sua proposta, oggi il suo target sono soprattutto i romani, anche se i turisti a Testaccio non mancano di certo come non manca un popolo di nottambuli allegri e affamati che potrebbero trovare ristoro ai tavoli del Mac in seconda serata.
Ma cosa dà Mac che non troviamo altrove? La sicurezza di un prodotto standard, di bagni puliti, la certezza di non incappare in brutte sorprese (anche perché con una proposta così, è difficile anche rimanere delusi), cosa che non si può certo dire per il resto dell'offerta cittadina, costi bassi e un prodotto che non dovrebbe entrare in competizione con le vicine attività. E se questo accadesse ci sarebbe forse da farsi non una ma mille domande. Qualcuno plaude i 50 posti di lavoro – i contratti pur se aderenti a quelli Fipe, giocano al ribasso con minimi sotto agli 800 euro – qualcun altro trema all'idea dei profluvi di fritto che potrebbero invadere le strade, qualcun altro segnala che questa apertura, in questo posto, rappresenta uno sfregio, un po' come fu per l'apertura poi sfumata vicino alle Terme di Caracalla.