Andoni Luis Aduriz è uno degli chef più influenti al mondo. Con il suo Mugaritz di Errenteria, alle porte di San Sebastián, ha aperto nuove prospettive alla gastronomia, non solo dal punto di vista dei sapori e delle tecnica, ma anche da quello del portato concettuale che accompagna la cucina (come sarebbe auspicabile accadesse in ogni attività umana). Lo ha fatto liberandola dai contorni definiti del gusto, del palato, dello stomaco per espanderne in confini a tutta la complessità dell'essere umano: cuore, testa, emozioni.
Basti pensare al lavoro pionieristico sulle muffe, per esplorare nuovi sapori e consistenze, ma anche per indagare il punto in cui la vita di un cibo trascolora nella sua fine, il confine tra ciò che è buono e ciò che non lo è più, tra il già noto e l'oscuro, aprendo le porte anche a elementi disturbanti, che non di rado mettono in difficoltà gli ospiti. Del resto il suo intento non è compiacere, ma smuovere emozioni e idee. Ti spinge un po' più in là della confort zone, foss'anche per il servizio di alcuni passaggi, come quando ti fa succhiare il latte tiepido da uno stampo di silicone a forma di seno, o ti fa piluccare direttamente con le labbra un'insalata da una specie di maschera con i lineamenti della cameriera che ti serve il piatto, obbligandoti a "baciarla" con delicatezza per cogliere fiori e foglie.
Anche nei piatti più inquietanti c'è sempre un portato di grande profondità, un'eco intensa, una poesia indomita che pretende strade nuove e nuovi punti di fuga (come recita il titolo di un suo libro, Vanishing Point) che Aduriz cerca spostando costantemente riferimenti, in un lavoro di concerto con antropologi, botanici, artisti, chimici, neuroscienziati, sociologi. Un gruppo eterogeneo che lavora per sei mesi l'anno (in cui il Mugaritz p chiuso) a un brain storming che non cerca mai risposte ma incalza con domande e domande. I risultati spesso non sono addomesticabili, ne è consapevole: una delle maglie che indossa più spesso lo dice chiaro: nosé, non so. Ed è la risposta alla domanda che si fa ogni volta: piacerà alla gente? Nosé, non so. Festeggiato il quarto di secolo del Mugaritz, Aduriz è sempre più a suo agio nel ruolo di mentore ribelle, curioso come un bambino e ancora umile, di quelli che non vogliono mai darti soluzioni preconfezionate ma mettere in moto il cervello, a costo di risultare impopolare. Noi lo abbiamo intervistato (con gli occhi a cuore).
Tempo fa qualcuno mi disse: al Mugaritz ho consumato la migliore cena della mia vita e la peggiore della mia vita. In entrambi i casi, però, è stata eccezionale. Cosa ne pensa?
Ciò che ci spinge a spostarci ogni stagione è la curiosità. Sono arrivato qui quasi 25 anni fa e non sapevo dove stavo andando, ma sapevo dove non volevo essere, ho sempre avuto ben chiaro che per me la gastronomia poteva essere un tipo di attività che mi avrebbe aiutato a trovare me stesso. C'è una chiara vocazione alla creatività, ma non perché il termine sia di moda, risponde davvero alla curiosità e a un enorme desiderio, quasi ossessivo, di pensare o credere che siamo nutriti da tutto ciò che c'è nel mondo. Una volta che si assume questo rapporto con il proprio lavoro e con il proprio modo di vivere la vita, logicamente lo si restituisce. In un mondo come quello della cucina, che spesso risponde a spazi comuni così definiti, un progetto come Mugaritz inizia a grattare e a fiutare i punti ciechi della gastronomia e i suoi cliché. Ma questo atteggiamento non è motivato dalla provocazione o dall'andare controcorrente, ha piuttosto a che fare con la costante ricerca del progetto e del team.
Quanto è importante per voi che i piatti siano buoni? O se preferite: cosa conta di più in un piatto?
Il gusto è un senso che viene amplificato se il resto viene utilizzato all'interno di un'esperienza. Al Mugaritz ci impegniamo a dare alle consistenze lo stesso rilievo del gusto, a cercare di valorizzare il tatto mangiando con le mani o con il corpo, a giocare con il tempo come un altro ingrediente, con le storie... Alla fine, la lingua inizia nel cervello e ampliare il senso del gusto con gli altri sensi è un modo per ampliare l'esperienza gastronomica e la sua narrazione.
A cosa pensa quando crea un piatto, qual è la domanda che si pone? Qual è l'obiettivo?
L'ispirazione è uno sguardo, un atteggiamento. Quando si affronta il mondo con una sete di conoscenza, per imparare da un prisma di curiosità, si stimola costantemente il pensiero. Può accadere durante un viaggio, con un libro, con un gesto... le possibilità sono infinite. Il nostro intero processo creativo inizia con un primo gesto. Uno schizzo. Un primo schizzo disegnato a mano libera su un foglio di carta che ci aiuta a delineare i riferimenti su cui concentreremo i nostri sforzi. La sobrietà della nostra cucina viene spezzata in inverno da un'esplosione di colore: incolliamo le illustrazioni preparate da Javi Vergara (del team di Ricerca e Sviluppo) su una sorta di murale su cui riportiamo i concetti che andremo a scomporre, nonché gli elementi che riteniamo necessari per dare vita alla cucina: prodotti, tecniche, stoviglie, intenzioni, sequenze, metafore, stati d'animo...
Il vostro è uno dei ristoranti più influenti al mondo e l'anno scorso è stato premiato con l'Icon Award. Secondo lei, qual è il contributo più importante che ha apportato al settore della ristorazione?
È sempre difficile parlare di ciò con cui si ritiene di aver contribuito, ma credo che Mugaritz stesso sia stato una fonte di ispirazione, che abbia osato sperimentare, spingersi oltre i limiti della gastronomia. Fin dall'inizio è stato un progetto che ha puntato molto sulla creatività e ha ripensato a molte questioni: da come doveva essere la struttura del menu, a come ordinare la sequenza dei piatti. Credo che ci siamo sempre posti domande diverse e abbiamo sempre cercato di mettere in discussione le cose. Inoltre, la curiosità è sempre stata la forza trainante, e questo ci ha fatto costruire un quadro di relazioni molto interdisciplinari, che ci ha nutrito e insegnato molto.
Ha fatto una bella cena a Firenze con uno dei suoi ex allievi, Simone Caponnetto. Le capita di dare suggerimenti a chi poi va per la sua strada? Un ristorante come il Mugaritz è divisivo, consiglierebbe a qualche giovane che deve ancora consolidarsi di seguire la sua stessa strada?
Siamo tutti allievi l'uno dell'altro. Simone era già un professionista quando è arrivato a Mugaritz e ha portato con sé tutta la sua esperienza e i suoi apprendimenti precedenti. Mugaritz è un progetto molto corale in cui tutti contribuiamo e ci nutriamo delle reciproche conoscenze. Non sono bravo a dare consigli, ma di solito sottolineo l'importanza che ognuno cerchi la propria definizione di successo, non quella che ci si aspetta da lui o che viene stabilita da persone diverse da lui. Ciò che si impara al Mugaritz può essere applicato in qualsiasi ambito della vita, non deve essere necessariamente legato alla gastronomia. Infatti, ci sono persone che, dopo il periodo trascorso al Mugaritz, ora lavorano nel settore Ricerca e Sviluppo o producono salse o si occupano di eventi. Dico sempre che per me la definizione di successo è conciliare ciò che si vorrebbe fare con ciò che si fa.
Nel 2015 le abbiamo chiesto cosa fosse Mugaritz in quel momento. Lei ci rispose che il suo ristorante aveva radici profonde e che grazie a queste era in grado di porsi domande che altri locali più giovani non avrebbero avuto il tempo di porsi. Quasi 10 anni dopo, le poniamo la stessa domanda. Che cos'è Mugaritz ora che ha 25 anni?
Dopo 25 anni, Mugaritz continua a essere un luogo di ricerca. È un ecosistema creativo che si muove ogni anno senza la necessità di reinventarsi ogni anno, ma piuttosto di rispondere alle domande che si pone o che incontra lungo il cammino.
E cosa si aspetta per il suo futuro?
Non ho grandi obiettivi in mente, se non quello di mantenere il mio entusiasmo e la mia voglia di andare avanti. Sono una persona curiosa e desiderosa di sapere di più, e vorrei continuare a imparare in futuro senza mai perdere la mia curiosità.
E ora, l'altro lato della questione: è cambiato qualcosa rispetto ai primi anni?
Se non fossimo cambiati, avremmo sbagliato qualcosa. Se dessi all'Andoni di quando ha iniziato le immagini di quello che stiamo facendo ora, non ci crederebbe, penserebbe che vengono da un altro pianeta. Ci sono voluti più di 20 anni per poter fare quello che facciamo oggi. Anche a livello personale sono cambiato, ora relativizzo molto di più le cose e mi pongo domande che ritengo migliori di prima. Prima non potevo permettermi di lavorare così tanto sulle idee, mentre ora ho il tempo necessario.
Ora la pandemia sembra quasi una cosa lontana. Ma è stata solo pochi anni fa. È cambiato qualcosa dopo Covid?
Sì, credo che Covid abbia lasciato delle lezioni e molte di queste sono personali, non generali. Nel nostro caso, dal Covid abbiamo deciso di aprire per 6 mesi e chiudere per 6 mesi, abbiamo affrontato la vita all'interno di codici molto più impegnativi. Poter chiudere il ristorante ci permette di avere del tempo di qualità da dedicare ad altri progetti che abbiamo in corso, e di essere più attenti, allegri, cercando di essere più efficienti. Siamo impegnati in quello che facciamo e vogliamo esserlo sempre di più.
Chi la segue sui social media sa che lei è un avido frequentatore di ristoranti, di tutti i tipi. Ma se dovesse scegliere i suoi tre migliori, quali sarebbero?
Non ho solo 3 ristoranti preferiti, né un drink preferito. Non so come scegliere un colore, un piatto, un Paese, non so come fare. Di solito spiego che quando sono su un volo che arriva a Lima, mi viene voglia di bere un Pisco, e non ho mai bevuto Pisco in vita mia. Credo che la diversità sia un valore e mi piace nuotare in essa. Ogni cosa ha il suo tempo, il suo momento e il suo spazio.
Un ristorante come il Mugaritz fuori dalla Spagna e dai Paesi Baschi (con il loro ruolo nell'avanguardia gastronomica) sarebbe stato possibile?
È un'ottima domanda e allo stesso tempo è molto difficile rispondere. Mi piace pensare che sia così. In fin dei conti, sono necessarie due cose. È necessario avere una vocazione e una testardaggine che ti faccia rimanere fedele al tuo percorso, qualunque cosa accada. Per questo è necessario avere una struttura alle spalle che ti permetta di attraversare un deserto senza sapere quando finirà. Ho imparato a El Bulli che quando hai un progetto sincero, innovativo, con molta personalità che non rientra nei gusti standard della gente, hai bisogno di tempo, ma devi finire per attraversare il deserto. Devi anche trovarti in un luogo che ti aiuti a far conoscere quello che fai. A San Sebastián è successo perché in quel periodo c'erano molti occhi puntati su ciò che accadeva nel nostro territorio e questo ci ha aiutato molto.
A che punto è la cucina spagnola post Ferran Adrià?
Penso che la cucina spagnola sia come quella di molti luoghi del mondo, molto dinamica, con ristoranti molto consolidati, come il Mugaritz, con progetti delle generazioni precedenti che continuano a operare con questa eccellenza, e poi il panorama si è arricchito di tutti gli chef giovani e preparati che hanno contribuito con molta più ricchezza. Ai congressi di cucina si vede molto bene cosa sta succedendo.
Quali sono stati gli episodi più rilevanti della gastronomia moderna?
È un'opinione personale, ma direi che negli ultimi 25-30 anni la creatività si è scatenata in un modo mai visto prima. D'altra parte, è successa un'altra cosa straordinaria, e cioè che prima le regole del gioco erano stabilite da codici che avevano a che fare con una cucina molto ordinata dalla guida Michelin, che ti diceva come doveva essere un ristorante di qualità, e in qualche modo tracciava la strada da seguire, e questo è ancora limitante.
Poi che è successo?
È successo che il mondo si è aperto, che sono entrate nuove guide, nuovi riconoscimenti e il campo di gioco si è allargato per tutti i tipi di ristoranti. Questo ha permesso a cucine che prima erano sconosciute di avviare la propria attività con enorme successo. È cambiato anche il concetto di lusso.
Qual è la cosa che le fa più piacere sentir dire alla fine di una cena al Mugaritz?
Diciamo sempre che la cosa peggiore che può capitare a qualcuno quando va al Mugaritz è che rimanga indifferente.
Durante questo viaggio in Italia ha avuto il tempo di visitare dei ristoranti? O ha provato qualcosa che non aveva mai provato prima?
L'Italia è un paese che amo, questa volta siamo stati a Firenze. Il team di Locale ci ha portato in alcuni luoghi straordinari. Firenze è incredibile, una città traboccante di arte e tradizione, l'atmosfera rinascimentale che si respira per le strade è di grande ispirazione.
Recentemente avete ricordato al cliente la sua responsabilità, la necessità di essere informato. Può dirci di più?
Penso che sia responsabilità del cliente sapere dove va a mangiare, indagare sul ristorante e conoscere la sua cucina e i suoi piatti, il suo concept. Non basta andare in un ristorante, che può essere molto rischioso, e poi lamentarsi, perché potrebbe essere che non è il vostro ristorante. Quando qualcuno vuole andare a un concerto di musica, di solito si informa sullo stile musicale, per vedere se si adatta o meno a quello che vuole. Anche nella gastronomia mi appello a questa logica e al fatto che c'è una responsabilità da parte del commensale.
foto di copertina: Alex Iturralde