Di Virgilio Martinez si è parlato molto in Italia, in questi mesi. Da quando, cioè, con il suo Central di Lima ha vinto la 50 Best Restaurant classificandosi al primo posto: miglior ristorante al mondo . Da lì in poi è stato un vortice da una parte all'altra dell'Oceano, portando la sua cucina e ancor più il suo lavoro in numerosi eventi, come i recenti Ein Prosit a Udine e Buonissima a Torino, dove è stato protagonista di una cena straordinaria per armonia, suggestione, incanto.
Chi conosce il suo lavoro, sa che non si esaurisce in cucina o al pass, ma è legato a un progetto ben più ampio, che parte dalla conoscenza del territorio del Perù, la sua esplorazione, la catalogazione delle specie botaniche, delle molte varietà vegetali spesso sconosciute anche agli stessi peruviani. Un lavoro di concerto con biologi, architetti del paesaggio, nutrizionisti, botanici, fotografi, antropologi oltre che con agricoltori, pastori e tutte le comunità rurali. Si tratta di scoprire e valorizzare prodotti e tradizioni locali, di salvaguardare la cultura agricola, di evidenziare l'enorme biodiversità di quella parte del mondo che conta – solo per fare un esempio – oltre 4mila tipi diversi di patate, e dare anche una prospettiva commerciale e di sopravvivenza a intere comunità.
Un percorso svolto a fianco della sorella Malena e alla moglie Pia Leon (cuoca, anch'essa, tra le migliori del mondo con il suo Kjolle) di cui la cucina è stata la tappa iniziale, ma che oggi ha molto a che fare con un progetto scientifico – di cui il centro ricerche multidisciplinare Mater è la base operativa - e un'esplorazione profonda che si accompagna a Mil, ristorante a Cuzco, 3500 metri di altitudine, vista sulle rovine Inca e un profondo legame con la cultura agroalimentare andina.
Lo avevamo intervistato qualche anno fa, prima che succedessero molte cose. Torniamo a incontrarlo oggi, quando con il suo impegno non ha solo portato sotto i riflettori la cucina peruviana, ma ha fatto scoprire il corpo e l'anima di un Paese incredibile: il suo menu Altitudini, che traduce in piatti gli ecosistemi del Paese, è un trattato di geopoetica alimentare.
Central ha 15 anni. Come è cambiata la sua visione del cibo e della ristorazione in questo tempo?
Abbiamo iniziato in modo molto piccolo e man mano abbiamo aumentato il numero di persone nel team: siamo passati da 40 persone a 150.
Non è solo una questione di numeri, però
Il cambiamento è stato enorme in termini di coerenza, precisione e dettagli. Ma è cambiata anche la filosofia del ristorante, per l'esperienza dei diversi ecosistemi del Perù e per l'apertura del ristorante a Cuzco. Credo sia stato importante perché ha cambiato il modo in cui interpretiamo la nostra natura: quando parliamo di cucina naturale, ora in un certo senso abbiamo un nostro codice. Quindi non abbiamo trasformato solo il cibo, ma anche la comunità e le persone. E di sicuro abbiamo trasformato il ristorante.
In cosa consiste questa differenza?
Quando abbiamo aperto volevamo solo accontentare la gente, in questo momento abbiamo uno scopo chiaro e una ragione: vedere il ristorante come un'interpretazione della natura, della bellezza, di ciò che accade in America Latina, persino ciò che accade nel mondo. Abbiamo molti impegni e molti compiti da realizzare, è un apprendimento costante: più lavoriamo e andiamo in profondità, più vediamo cose nuove.
Quindi accontentare il cliente non è più il vostro primo obiettivo?
La nostra ambizione ora nasce da una costante ricerca di significato, diventa più una questione filosofica sul perché cuciniamo, sul perché il Central si occupa di cucina raffinata, sul perché è un ristorante che oggi fa viaggiare la gente da tutto il mondo per un tavolo. Dobbiamo ancora rivolgerci alle persone, naturalmente, ma anche al nostro ambiente mentale, fisico, ecologico. Da sei o sette anni non pensiamo più solo come un ristorante, ma in modo molto più profondo.
È questo sia il futuro dell'alta ristorazione?
Non posso parlare per gli altri, ma questo è il nostro futuro, e sono contento perché conosco la nostra destinazione. E non è facile trovarne una. Quando apri un ristorante, quando incontri la fama, ti vengono in mente sempre le cose superficiali. Nel nostro caso abbiamo una visione chiara, vogliamo trasformare ciò che pensavamo prima in qualcosa di totalmente sensato, così ci stiamo liberando di quello che non appartiene alla nostra filosofia e alla nostra visione.
Nel nostro fine dining, e forse non dovrebbe essere neanche chiamato fine dining, l'innovazione che stiamo facendo è la creatività al massimo livello. E l'ambizione viene dal nostro cuore e dalla nostra anima, dall'arte, e questo dà un senso ai nostri messaggi.
Dunque dove sta andando il fine dining?
Forse il futuro dei fine dining è che le persone che ci vanno toccano la tua anima e ne sono toccate. È quando si pensa che il tempo trascorso in un luogo specifico - anche se si tratta di un ristorante - abbia un grande significato nella propria vita. Pensateci, è difficile che quattro ore in un posto dove si è totalmente disconnessi, vi colleghino alla realtà. Siamo circondati di messaggi, rumore e notizie che riceviamo dai social media: avere quattro ore di attenzione della gente, quattro ore di piacere che abbia anche un valore dal punto di vista intellettuale ed educativo, penso che sia davvero un cambiamento di prospettiva.
L'approccio del Central sarebbe possibile fuori dal Perù?
Abbiamo lavorato a Tokyo, a Singapore, e credo che il nostro approccio potrebbe applicarsi ovunque, dove trovi un ecosistema, dove lavori con una comunità, con ingredienti locali, dove puoi incontrare i produttori e cercare di portare tutto questo nel ristorante. È quel che stiamo portando avanti e sono valori che appartengono a tutti.
Quanto ha a che fare il vostro lavoro con la cucina peruviana?
Dato che rappresentiamo la nostra biodiversità, la maggior parte delle persone pensa che questa sia solo cucina locale. È in un certo senso molto simile a quando proviamo qualcosa di tipico e pensiamo che non potrebbe accadere in nessun altro posto. Ma quel che facciamo con la cucina locale potrebbe essere fatto in America Latina e ovunque. Quindi, non è solo peruviano, no. E il gusto che si trova a Central, non è un altro legame con il Perù e con le ricette peruviane. Ovunque andiamo, siamo addestrati a osservare la natura e abbiamo l'umiltà di apprezzarla, la logistica, la dedizione, e la capacità trasformarla in quella che credo dovrebbe essere chiamata un'esperienza.
Com'è il suo processo creativo?
Per lo più proviene dalla biodiversità e dagli spazi naturali ed è qualcosa di molto organico. Non faccio un piano, non ho una ricerca... Abbiamo un centro di ricerca e di interpretazione da cui prendiamo la maggior parte delle idee, ma queste arrivano anche in cucina, in fattoria, in una comunità di agricoltori locali, dobbiamo rimanere sempre connessi alla nostra cucina e a chi ci è intorno. Penso che si tratti soprattutto di motivazione.
Dunque come nasce la creatività?
Per me la chiave è svegliarsi ed essere motivati. In questo momento sento che c'è molto da fare, a volte la giornata finisce troppo presto e ci sentiamo ancora energici, purché troviamo l'equilibrio. Forse è più filosofico dire che deriva dall'armonia e dall'equilibrio che cerchiamo di ottenere tra la nostra mente, il nostro corpo, il nostro modo di vivere. Questo mi motiva e muove il mio processo creativo che oggi penso sia più ampio di quanto non fosse prima.
Il Central è piuttosto dispendioso rispetto al costo della vita in Perù. Chi sono i vostri clienti?
Beh, ho molti, molti modi per rispondere. Se chiedi ad alcuni peruviani quando spendono in una festa o due, probabilmente avrai la spesa del Central. Un ristorante dove circa 140 persone lavorano per te ovviamente è costoso, ma qui tutto ha davvero un significato. Non siamo qui per fare grandi quantità di denaro ma vogliamo preservare il nostro team e la nostra comunità. Le cose che ci interessano sono costose perché non negoziamo.
Parla dei produttori?
Sì, non negoziamo con loro: paghiamo ciò che loro chiedono per il cibo. Non possiamo sopravvivere come ristorante se riduciamo i nostri prezzi perché dobbiamo mantenere l'intera struttura. Poi c'è il livello di complessità degli ingredienti, ne usiamo 250 di diversi territori del Perù: il food cost da noi è molto alto e così la logistica e tutto il resto.
Questo per quanto riguarda i costi. Ma i clienti?
Per tornare ai clienti, quando hai questa esposizione internazionale, è ovvio che l'80% arrivano da fuori perché chi pianifica un viaggio, prenota anche i ristoranti e spesso viaggia proprio per provarli. Noi abbiamo il 20% di clienti locali: molte persone che in Perù apprezzano l'offerta che stiamo facendo e sono disposti a pagare per questa. I miei vicini a Barranco (dove qualche anno fa ha spostato il suo ristorante, ndr) vedono il mio lavoro, vedono come passiamo le ore in cucina con Pia e il team, andando a Cuzco o nei vari posti, vedono e sono d'accordo che stiamo facendo qualcosa di buono per il Perù, e capiscono che questo ha un prezzo. Non siamo qui per sprecare denaro, stiamo restituendo molto. Penso che ogni volta che qualcuno viene a trovarci, sia del tutto logico che la pensi così.
Tutto a posto quindi, nessun lamento?
Certo! Troverete alcuni troll impazziti su Twitter che dicono: "Non pagherei per questo e altro". Ma sono le stesse persone che si lamentano di un ristorante Tre Stelle e lo paragonano a McDonald's. Sono cose che non possono influire su di noi, come se controllassi tutte le mie recensioni su TripAdvisor. Finché vedo che i miei ospiti e le persone che mi circondano sono soddisfatti di ciò che facciamo, penso che stiamo andando benissimo.
E la 50 Best ha cambiato qualcosa?
Sicuramente ci ha aiutato, ma siamo in 50 Best da 10 anni con questo concept legato alle altitudini e agli ecosistemi, e poi siamo stati in Giappone. Il primo posto è solo una convalida del nostro lavoro, penso che possa essere un ottimo esempio del risultato di quel che facciamo. Naturalmente è di grande aiuto, un po' come Netflix. Ora abbiamo clienti da diverse parti del mondo: Filippine, Australia, Hong Kong, Cina mentre prima erano più dall'Europa e dagli Usa, New York, Los Angeles. Credo che questo dipenda dalla 50 Best, che arriva ovunque nel mondo.
Il vostro governo vi aiuta? Sostiene i ristoranti importanti?
Era una cosa che funzionava prima, il governo sosteneva i ristoranti e loro sostenevano la maggior parte del turismo che in Perù è legato alla gastronomia: quando si pensa al Perù si pensa al cibo di strada e ai ristoranti. Ma negli ultimi 9 anni no, abbiamo un governo molto disordinato, non stiamo ricevendo alcun sostegno da loro, e non sappiamo se c'è interesse o attitudine a di farlo. Dunque abbiamo deciso di fare da noi: con Mitsuharu Tsumura, Gaston Acurio, Jaime Pesaque e altri grandi chef stiamo lavorando insieme per fare di Lima la più grande città per la gastronomia. Non chiediamo al governo di aiutarci. Sappiamo che la gastronomia oggi è molto collegata allo stile di vita e al turismo quindi sappiamo che dobbiamo lavorare con persone molto talentuose non solo in cucina e nell'ospitalità ma anche per quanto riguarda la visione strategica.
A Torino, il menu della cena di Buonissima, era delizioso oltre che molto interessante. Avete scelto dei piatti che potessero essere comprensibili da una clientela italiana?
Non al 100%, ma potrebbe esserci un scelta minima, diciamo un 5% di quello che, secondo me, piacerebbe agli italiani. Ma non posso cambiare la mia idea di lavorare con gli ecosistemi e gli ingredienti che appartengono a un luogo. Quindi, se vado in Italia, non renderò l'Amazzonia più italiana. Se vado in Spagna non renderò le montagne delle Ande più spagnole. È come un equilibrio e un'armonia che abbiamo trovato negli ecosistemi naturali che rendono il nostro cibo, come ha detto, non solo delizioso. È una cosa che va oltre, perché si può andare in molti posti con cibi deliziosi, ma se non si sentono l'anima, il legame con aspetti artistici e artigianali, e l'armonia, non si sentire questa magia.
Data la sua attitudine a esplorare i territori, ha trovato dei prodotti interessanti in Italia che magari portano un'idea o un'ispirazione?
Sono sempre impressionato dal formaggio italiano, noi non ne abbiamo di simili in Perù, è qualcosa di fantastico. Ho vissuto un po' della realtà dei ristoranti, e ho visto molti giovani cuochi molto motivati. Penso che una delle cose migliori che si possano avere sia questa generazione, cuochi che hanno molta speranza e orgoglio di ciò che fanno e di ciò che hanno, parlano delle loro nonne, del loro cibo e della loro tradizione. Questo è davvero dare valore alla tradizione. E la vostra tradizione è straordinaria. Quindi posso dirvi che il formaggio, i vegetali e gli altri prodotti che state usando per me sono buoni, ma penso che il livello di impegno che si vede su alcuni giovani sia impressionante. Questa è la caratteristica migliore della vostra cucina, c'è un buon futuro per la gastronomia italiana.