Ci provo, ma non riesco a pensare a niente di più moderno e frizzante del fine dining. Anche se, paradossalmente, “fine dining” è una definizione polverosa, in bianco e nero, evocatrice di uomini in smoking e donne in abito da sera. Eppure, gli esperti di food concordano nel sostenere che, in cucina e nel mondo intero, non esiste avanguardia più oltranzista e visionaria del fine dining. E io mi associo. Anche se “avanguardia” è un concetto di estrazione novecentesca, nato e sepolto in quel contesto storico di effervescenza culturale e di ribellione post-bellica con vista sul boom economico. Mentre, a dirla tutta, nello sfarzo delle sale e nei gesti bianchi degli chef, è difficile scorgere un vago fremito di insurrezione sociale, se non da parte dell’incauto avventore alla consegna del conto.
Pesano menu degustazione da 1.000 portate
Dettagli. Certo, è onesto ammettere che sul galateo dell’alta ristorazione pesano vezzi anacronistici e abitudini seriali che potrebbero apparire stucchevoli. Cito il meglio del peggio alla rinfusa. Le ceramiche bianche con bocconcini “finger food” incollati sopra, i brodi versati direttamente al tavolo sulle pietanze, i pesci cubetto con ikebana di “verdure croccanti”, le macchiette e le svirgole colorate alla Pollock, l’esasperante spiegone dei piatti, la pagnottona calda da intingere nell’olio, i grissini sottili come giunchi, le memorie di nonna, i giochi di consistenze, i giochi di temperature, i giochi di innovazione. E ancora: i menu degustazione obbligatori, perché la cena deve essere “un percorso esperienziale”, i menu degustazione da mille portate, a causa dei quali, più di una volta, ho pensato di sporgere denuncia per sequestro di persona.
Una ritualità ripetitiva
Salvo debite eccezioni, il nostro amatissimo fine dining è ormai un corollario di ritualità prevedibili e catalogate. Il feticcio coatto della creatività a oltranza si scontra con i limiti umani di una categoria con le idee al lumicino.
Forse per questa ragione, c’è chi si impone retromarcia, mezza o intera, allo scopo di salvare almeno i conti. Lo chef modenese Luca Marchini aggiunge una pizzeria alla sua collezione di locali, come racconta l’ottima Antonella De Santis proprio sul Gambero. Ancor più forte la voce della étoile Viviana Varese, che divorzia da Eataly Smeraldo a Milano e dichiara coraggiosamente ad Alessandra Dal Monte del Corriere della Sera: “Voglio liberarmi dalle aspettative che si hanno su una cuoca Michelin. E mi rimetterò a fare la pizza”.
La società cambia pelle
Sono soltanto due esempi di emancipazione. Possiamo scommettere che le cronache dei prossimi mesi ne metteranno in fila altri.
La società muta pelle. Nelle strade delle nostre città si pedala a testa bassa una vita di tutte salite. Soltanto gli chef d’alto bordo, per ora, guardan per aria a riveder le stelle.
Si accorgeranno presto che non c’è niente di più vecchio e noioso del fine dining.