E la frutta? Sta alla frutta, è il caso di dire! Nel senso che è finita, è giunta al capolinea. Provate a chiedere in un ristorante se sia possibile avere della frutta: nella migliore delle ipotesi vi risponderanno che ci sono ananas o – se in stagione – fragole. Oppure solo una mela. Eppure, se diamo un’occhiata al testo sacro della cucina italiana (quello di Pellegrino Artusi – come ricorda l’amico Luca Cesari in un suo articolo sul Sole24Ore di dicembre) leggiamo l’appendice dedicata agli “stomachi deboli” e focalizzata proprio su qualche frutta mangiare a fine pasto. 300 anni prima uno dei padri della tavola italiana fa un elenco di frutta da fine pasto specificando qualità e provenienze dei diversi frutti, dalle “mele appie” alle “ciliegie palombine (o romane)”, dalle “albicocche” alle “prugne damaschine”. Ormai però di tutto ciò non vi è più traccia o quasi. Tanto che già negli anni del boom economico Luigi Veronelli, (nella riedizione de Il Carnacina) escludeva la frutta come naturale fine del pasto ma la dava solo come facoltativa.
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Igles Corelli: scarsa qualità
«In molti ristoranti – spiega chef Igles Corelli – si trova ancora la frutta magari “cucinata” o passata al pacojet. Ma i problemi sono due: la veloce deperibilità della frutta matura e la scarsa qualità della frutta stessa che non la rende più appetibile, né per gli chef né per i commensali». Anche se nel 1925 nel suo “Il Re dei Cuochi – Trattato di gastronomia universale”, Giovanni Nelli alla voce dessert scrive: “L’ultimo servizio di un pranzo unicamente composto di frutta, formaggio, composte, confetture, pasticcerie, dolci, vini forestieri e liquori”. Oggi però, ricorda Cesari, “anche a casa, quando abbiamo ospiti, raramente tiriamo fuori arance e mandarini”.
Neppure la moda veg ha avuto effetti
Perché questa disaffezione? Pensavamo che le varie diete che da anni ci guidano a tavola avessero in qualche modo bandito gli zuccheri (e dunque la frutta) dalle nostre abitudini conviviali. In realtà, però, è solo la frutta la vittima del bando, perché invece gli zuccheri (e tanti) dei dolci da fine pasto continuano a dominare i menu. Il dubbio è se non ci stiamo abituando a una cucina di tipo “global” dove vincono il gusto dolce, la semplicità di masticazione, la velocità di consumo e di servizio, i sapori standardizzati sul livello industriale. Neppure l’avanzata delle religioni veg ha ridato vita alla frutta a tavola. C’è qualche fruttariano che si imbottisce di datteri o di banane. In qualche ristorante troviamo l’ananas. O la macedonia, prevalentemente nei banchetti o nei menu fissi, o le fragole in stagione e magari con panna (zuccherata). Ma difficilmente nelle carte (delle trattorie come dei fine dining) troveremo la voce frutta.
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Se la terra è sempre più lontana
In queste considerazioni ci illumina un pensiero: non sarà un fatto essenzialmente culturale? Ci allontaniamo dalla cultura della terra, del legame tra cibo e agricoltura. La frutta non si trova sugli alberi, ma sugli scaffali, ormai. E il suo sapore è assolutamente pallido, senza nessun picco, senza nervo, piatto. Da quanto non trovate una pesca che abbia senso? O un’albicocca? Quanti sapori (e profumi) può avere una pera (le decine e decine di pere che esistono – esistevano – nelle nostre campagne)? Ci sono chef che fanno composte e salse e mostarde di frutti antichi – quando riescono a trovarli. Eppure, la nostra nutrizionista di riferimento ci avverte: «Non è consigliabile consumare troppi zuccheri semplici a pasto per non stimolare l’iperinsulinemia. Ma certo, tra un dolce e un frutto non avrei dubbi: meglio la frutta che ha anche nutrienti importanti come le vitamine che con il calore della cottura se ne vanno». E allora, proviamo a riscoprire il valore della frutta e delle diverse varietà, al naturale. Chissà se possiamo dare una mano anche alla produzione di una frutta più identitaria e più ricca di senso, oltre che di gusto?