"Michelin? È importante, attira molta attenzione". Intervista allo chef che ha conquistato due macaron in dieci settimane

16 Ott 2024, 09:06 | a cura di
Koan di Kristian Baumann conquista due stelle Michelin in meno di 3 mesi. Il segreto? In cucina racconta la sua identità di coreano cresciuto in Danimarca

«Il nostro ristorante è un'esperienza in cui accompagniamo gli ospiti in un viaggio: sia il mio personale che quello del ristorante» dice Kristian Baumann, due stelle Michelin con il suo Koan fuori Copenaghen.

Nato in Corea, Baumann è stato adottato da una famiglia danese – con un'educazione tradizionale danese, sottolinea – nel suo cammino ha costruito la sua identità, non solo gastronomica. Un viaggio che definisce lungo e molto difficile per capire la direzione della sua vita. «Ma mi sono sempre sentito a metà tra due cose: sei danese ma non sei danese, sei coreano ma non sei coreano». Studia cucina e si forma in ristoranti francesi e nordici (Noma, ma anche Manfreds e Relæ), innamorato della creatività, della gente che spinge e lavora sodo; nel 2016 apre un ristorante di cucina nordica, il 108, e l'anno dopo fa il primo dei suoi viaggi di ricerca in Corea del Sud. Il Covid poi ferma tutto. Qualcosa però non tornava: «Dove sto andando?» continuava a chiedersi. Da lì le cose sono cambiate. Lo abbiamo incontrato a San Sebastian, dove ha presentato la sua cucina e la sua storia sul palco del congresso Gastronomika.

Cosa è successo?

Sin dal 2011 ho notato che quando cucinavo per la mia famiglia e per i miei amici, pensavo in modo diverso al cibo rispetto a quando ero al lavoro. Ho cominciato a chiedermi se questi due mondi potevano fondersi.

Cosa ha fatto allora?

Quando con il Covid ha chiuso il 108, abbiamo fatto un pop up, basato sulla mia storia. Così è nato Koan, in collaborazione con la distilleria di Empirical. Poi il paese ha chiuso di nuovo e abbiamo fatto take away per quattro mesi e mezzo, poi di nuovo un pop up al Relæ, finché non abbiamo trovato la sede definitiva.

Dopo 3 anni senza un posto fisso...

Ho capito che più si è resistenti meglio è. Abbiamo cercato il locale in tutta Copenaghen, quando l'abbiamo trovato, ho detto a mia moglie: «Ci siamo». È uno spazio in cui possiamo sognare per molti anni, e che possiamo permetterci: non abbiamo nessun miliardario alle spalle. Ci siamo sposati prima del Covid e non siamo ancora andati in luna di miele: ci siamo giocati tutto quello che avevamo per avviare il ristorante nel 2020.

Koan ha aperto il 4 aprile 2023 e dopo 10 settimane ha conquistato due stelle Michelin

Se apri un ristorante a Copenaghen, hai tre mesi di tempo, perché i critici vengono il primo giorno e hai una sola possibilità. Credo che se non si è pronti non si dovrebbe aprire.

Quanto conta la Michelin?

È importante perché attira molta attenzione. E sono felice per il team: volevamo uno spazio per lavorare insieme, ma anche prenderci il tempo necessario per affrontare le sfide. E il mio compito, come chef, è assicurarmi che il team sia pronto.

Allora come mai non avete stagisti?

Voglio concentrarmi su un piccolo gruppo di persone, assicurarmi che arrivi a un livello tale da poter fare tutto ciò che sogna. Una cosa è avere un sacco di persone che vanno e vengono, un'altra una squadra fissa. Francesco, il mio sous chef, è con me da otto anni: è lui la prossima generazione. Creerà qualcosa di straordinario e so che qualsiasi cosa gli capiti potrà risolverla.

Cosa pensa della cucina italiana contemporanea?

La adoro. Amo la storia, e cerco sempre di assorbirla; amo parlare con i miei chef italiani della loro vita, del loro passato, della loro educazione. Poi mi ispira molto che abbiano un legame profondo con il cibo. Se gli chiedi della passata o dell'olio d'oliva, hanno una reazione emotiva: sono lì con le loro famiglie a raccogliere i pomodori, a selezionarli e a conservarli.

È cresciuto in Danimarca, quando ha preso confidenza con la cucina coreana?

Io imparo mangiando. Ogni volta che sono in Corea, mangio per capire che succede, vedo le consistenze e i sapori e poi li categorizzo per sapere come utilizzare al meglio gli ingredienti; gli rendiamo omaggio e facciamo in modo che la gente li capisca.

Li adatta al pubblico danese?

Sceglie il mio palato: facciamo il kimchi bianco in modo tradizionale, ma interrompiamo la fermentazione tra i cinque e i sette giorni, perché non sia troppo forte. Così per il kimchi rosso: non mi piace troppo intenso. Anche se di base sono coreani, i nostri piatti sono un po' diversi. Per esempio il sundae, la salsiccia di sangue di maiale, ha una consistenza diversa, c'è l'acidità del ribes nero essiccato, e metto il riso al posto degli gli spaghetti di vetro per servirlo con la salsa.

Al 108, c'erano influenze coreane?

Solo pochi elementi, cercavamo in Danimarca alcuni sapori come quello del sesamo e dei semi di perilla selvatica; usavamo i semi della bacca di rosa canina, tostati ed emulsionati, oggi invece usiamo olio di sesamo di alta qualità.

Non è solo una questione di ingredienti però

Per me, un piatto inizia con un concetto. Ma nel mio caso si tratta di una evoluzione personale, il punto era trovare me stesso, la mia voce. Ora sento di avere una migliore comprensione di ciò che accade nella mia mente. E sono orgoglioso di chi sono: una persona nata in Corea e adottata in Danimarca. È quella la mia identità.

Questo per lei, ma in generale come funziona?

La questione dell'identità riguarda tutti, tutti si chiedono dove stanno andando. Io sono fortunato ad aver trovato pace perché significa che so dove sarò tra 20 o 30 anni. Voglio ispirare altre persone a intraprendere il loro viaggio.

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