Sto chiacchierando davanti a un Flat White nella prima caffetteria specialty milanese con Diego Rossi, chef (cuoco?) di Trippa, un caso unico di trattoria milanese contemporanea, nota per le sue preparazioni a base di frattaglie, che da anni gode di inossidabile successo di pubblico e critica, come si dice per i film. Lo abbiamo coinvolto sul tema della tradizione, onore e onere della cucina italiana, ma imbrigliare il Rossi in una chiacchierata a tema si rivela una missione ardua. Così si finisce a parlare di tassazione dell’ospitalità - «Io in un Paese con una pressione fiscale corretta sarei ricco» -, sull’aumento dei prezzi degli affitti, lavoro e materie prime («Mi vergogno perché ho dovuto alzare i prezzi se no non sto in piedi, ma voglio rimanere sotto la soglia dei 20 euro a piatto. Vuoi la trattoria a 10 euro? Mangi la m***a». La stella Michelin «l’ho avuta a 25 anni, al Delle Antiche Contrade a Cuneo, poi non mi è più interessata. Mi piacerebbe rompere un tabù per far capire che l’alta cucina non è solo quella dei ristoranti stellati ma può essere anche quella di una trattoria».
Trippa è una trattoria, appunto: cosa significa per te tradizione?
Io volevo fare una trattoria italiana legata alla tradizione, perché un conto è la cucina stellata e in quell’ambito la cucina è legata allo chef, al suo ego e creatività. Autocelebrativa, la famosa cucina d’autore, slegata da tutto. Oppure riprendi i vecchi piatti, li riproduci fedelmente.
Ha senso?
Sì per un fattore di memoria, rifacciamo le preparazioni di un tempo che è il nostro patrimonio. Vado in cerca della ricetta e nelle maggior parte dei casi ne trovo dieci, perché non siamo in Francia che ha codificato, da noi ogni famiglia ha la propria versione quindi ci sono mille sfumature. Ovvio poi che se mi metti la bottarga nella carbonara o l’ananas nel tiramisù ti dico che è un’altra cosa. Ma oggi possiamo riprodurre i piatti tradizionali con le conoscenze contemporanee: tecniche, consapevolezza di come trattare l’alimento, la scelta dell’ingrediente che una volta non c’era perché la materia prima arrivava dal campo vicino, non c’era scelta. Era dettata dalla necessità o dal territorio. Ad oggi possiamo scegliere il miglior ingrediente, la migliore preparazione, il miglior modo di farla.
Ad esempio?
La finanziera, in Piemonte in tantissimi posti è fradicia di aceto e ti dicono che questa è la ricetta tradizionale. Ma abbiamo capito che probabilmente era così perché l’aceto serviva a coprire odori sgradevoli. Ora che possiamo scegliere le migliori frattaglie e abbiamo consapevolezza delle tecniche di cottura riduco l’aceto per far sì che le frataglie siano in primo piano. Tanti contestano, ma è una contestazione sterile. Bisogna avere apertura, siamo qua per portare avanti la tradizione che vuol dire anche migliorare, non stravolgere attenzione. Hai la stessa sensazione ma migliorata. Quindi invece di sentire la botta di aceto subito senti la frattaglia e poi in fondo questa nota acida che ricorda la ricetta iniziale ma ti spinge a passate al boccone seguente.
La tradizione italiana imbriglia la creatività, ci lega le mani?
È come per il caffè, siccome noi abbiamo inventato delle cose, siamo stati forti in un campo ci vantiamo e quindi da una parte ci sediamo sul fatto che siamo i migliori, il che blocca la creatività, dall’altro abbiamo una tradizione fortissima e ci autoimponiamo dei limiti o delle consuetudini. Siamo noi però che decidiamo se farci soffocare o no, da Trippa sono stato io che mi sono imposto dei limiti perché ho deciso di rispettare la tradizione italiana però se tu guardi la maggior parte della mia carta è creativa, la mia cucina non la definirei mai tradizionale, è creativa non nel senso che faccio le sferificazioni ma che si rifà a qualcosa di non ancora visto.
Come si fa a scrivere una nuova tradizione italiana?
Non andando a prendere la salsa di soia, che non ci appartiene, io mi attengo al principio filologico e storico e guardo quali prodotti possiamo considerare storici, senza fare i pignoli se no non cucineremmo nemmeno pomodori o patate. Anche perché abbiamo un bagaglio pazzesco di biodiversità di ingredienti, non è necessario andare a pescare katsobushi e koji, per riscrivere la tradizione italiana secondo me bisogna vedere cosa offre il nostro territorio, il nostro habitat, la nostra stagione, il meteo, i terreni nostri. Da lì si parte col creare una nuova tradizione, con il primo principio secondo me intoccabile della stagione, quindi la natura che comanda e per conto mio comanderà sempre.
Cucina della tradizione e haute cuisine, qual è la migliore?
Il mio concetto di alta cucina, il massimo che si può raggiungere ed è quello che farò un giorno è coltivare, cogliere, non far vedere il frigorifero, preparare e servire. Senza abbassare temperature: una linea diretta dal terreno alla tavola, perché la cucina deve essere vista non solo come piacere e goduria, ma negli ultimi anni cominciamo a vedere anche l’aspetto nutrizionale che è altrettanto importante e secondo ma non è in contraddizione, una cosa è tanto più nutriente quanto più è buona, e viceversa. Non voglio arrivare al crudismo ma la mia filosofia è di intervenire il meno possibile. Quando prendi una verdura dall’orto, la tocchi il meno possibile e la servi la utilizzi nel suo miglior momento, ovvero appena colta. Quello è l’apice, non c’è tre stelle che tenga. Una volta che uno ha capito questo, il concetto di tre stelle Michelin va nel cesso. Se tu unisci il talento poi a questa materia prima al meglio, allora hai il top.
Ormai non c’è ristorante che si rispetti che non si sia fatto l’orto.
Uno vuole l’orto perché si fa il vegetale come preferisce e sicuramente è più sostenibile economicamente, parola che odio ma qui possiamo usarla. Poi uno chef ha sicuramente piacere a vedere crescere una verdura e coglierla, lavorarla nel momento migliore, però ancora non si parla dell’aspetto nutritivo che per me arriva ancora prima, del valore nutrizionale del prodotto appena colto. Se poi è una moda e uno coltiva in maniera etica e rispettosa ben venga, se uno diserba e butta pesticidi tanto vale che compri la verdura al supermercato.
In Italia c’è una sorta di avversione verso il vegetarianesimo e il veganesimo, quando in realtà la nostra tradizione è molto vegetariana. Ha una spiegazione?
Certo, perché negli anni la parte vegetale è stata associata a un tipo di mentalità e di politica, quindi il fatto che il vegetariano sia stato associato a discorsi sulla sostenibilità, sul verde, sul rispetto della natura e il fatto che ne sia stata fatta propaganda anziché acculturamento ha influito sull’opinione pubblica. La verdura è stata associata a un tipo di persona, fricchettona di sinistra con idee di un certo tipo, mentre uno può benissimo essere di destra, votare Meloni e mangiarsi le verdure. È un’idea talmente inculcata che se tu vedi un vegetariano lo inquadri già in una certa categoria. Poi viviamo gli strascichi del boom economico in cui sono stati calpestati tutti i principi di rispetto dell’ambiente, ci vorranno generazioni per arrivare al rispetto vero della natura. Invece dovremmo tornare a vivere come i nostri nonni, che non vuol dire morir de fame perché una volta si moriva di fame. Ma avevano un prodotto migliore di oggi che tutto è industriale, nato e concepito e prodotto come tale.
Siamo a un punto di svolta della cucina? La natura sta cambiando, qual è la sua percezione?
Certo, ci sono prodotti che non trovo più o che non trovo più nel mese dove dovrebbero crescere, sicuramente ci sono dei cambiamenti in atto tangibili a livello climatico, dobbiamo rendercene conto e adeguarci sotto l’aspetto creativo. La creatività dovrebbe essere utilizzata per andare a braccetto con la natura, non in modo fine a sé stesso tipo d’inverno uso la fragola con l’arancia perché stanno bene insieme, in natura non esistono insieme, è una forzatura. Sono questi i movimenti della storia di cui tenere conto, quelli che possono entrare a smuovere una tradizione.
Parlavamo di nutrizione, è d’accordo nel mettere le calorie di fianco ai piatti in menu come propone qualcuno?
Assolutamente no, intanto perché le calorie non sono riscontrabili, i prodotti son tutti diversi, sono tabelle che studiavo a scuola e non servono a niente a meno che non lavori in un centro per disturbi alimentari. Io non mi metto a fare il nutrizionista perché da me vieni a mangiare per il godimento, altro discorso andrebbe fatto per le mense dove mangi tutti i giorni. Al ristorante si va per mangiare, divertirsi, stare bene, passare una serata. Se iniziamo a inserire troppi concetti sulla nutrizione perdiamo. Se c’è una cosa che la gente non vuole farsi sentir dire cosa è quanto e cosa mangiare.