La silenziosa rivoluzione del Continente africano: ecco come i giovani chef tornati a casa stanno cambiando la cucina

13 Lug 2024, 12:22 | a cura di
La scena gastronomica africana è in rapida e costante evoluzione anche grazie al rientro in patria di chef figli della diaspora: nati e cresciuti all’estero o espatriati per formarsi, molti di loro sono tornati per valorizzare la cultura gastronomica iperlocale o continentale

Nei meandri della medina di Fez, Najat Kanaache, che ha frequentato le cucine del Noma, dello spagnolo El Bulli e del Per Se di New York prima di aprire Nur nel 2017, ne è convinta: «Dobbiamo smettere di vendere clichés». Vera forza della natura cresciuta nei Paesi Baschi, Kanaache è una degli chef che sta rivoluzionando la cucina del Continente. Nell’immaginario collettivo occidentale, l’Africa si associa più facilmente a carestie, povertà e ristoranti improvvisati che a menu degustazione e piatti creativi. Oppure si pensa alle cene dei grand hotel che propongono una cucina europea e asiatica. In realtà, la scena gastronomica africana è in rapida e costante evoluzione anche grazie al rientro in patria di chef figli della diaspora: nati e cresciuti all’estero o espatriati per formarsi, molti di loro sono tornati per valorizzare e condividere la cultura gastronomica iperlocale o continentale.

Chef Najat Kanaache nel suo tour alla riscoperta dei cibi tradizionali africani. In apertura, un piatto sudafricano KleinJAN

Una storia da re-imparare

«In Marocco abbiamo prodotti eccezionali e una cultura ricchissima, ma dobbiamo imparare a raccontare la nostra storia. Nella regione della mia famiglia, ad esempio, non si è mai mangiato il tajine eppure oggi è considerato un piatto emblematico», racconta Kanaache. La sua gioiosa interpretazione della gastronomia marocchina porta in tavola piatti ispirati alla terra, ma con delle contaminazioni: dai carciofi con aglio verde e fiori di Alisso alla rutabaga stagionata e fermentata passando per un polpo alla barbabietola e spiedini di funghi Maikate. Una cucina essenzialmente vegetale, in cui gli agrumi hanno un posto speciale. Le arance, soprattutto: «Hanno permesso a mio papà di sopravvivere quando ha attraversato la frontiera con la Spagna da migrante».

Un piatto di chef Najat Kanaache

"Con il cibo si fa politica"

Per Kanaache, e per tanti altri chef africani, «con il cibo si fa politica». Michael Elégbèdé a Lagos da ÌTÀN test kitchen propone menu ispirati alla cultura Yoruba e ad altri gruppi etnici nigeriani; la ghanese Selassie Atadika è convinta che la gastronomia possa diventare uno strumento per rivitalizzare le pratiche agricole abbandonate durante il periodo coloniale. Anche per questo il suo Midunu, nato ad Accra nel 2014 come ristorante nomade, si rifornisce esclusivamente da produttori locali e ha il proprio orto. Il menu di stagione include tra le 12 portate una versione del Tubaani. Un piatto del nord a base di fagioli Bambara lasciati una notte nell’acqua e poi cotti in una foglia locale che ne modifica la consistenza, insaporiti con erbe fresche e burro di karité.

Un piatto di chef chef Michael Elégbèdé a Itan test kitchen di Lagos

Una libertà difficile da praticare

Questa libertà creativa, la chef se l’è sudata: all’inizio era impossibile proporre più di tre portate a una clientela che frequentava i ristoranti italiani, ma non aveva idea di cosa si mangiasse in Kenya né immaginava che i piatti locali potessero avere un posto su una tavola di livello. In un continente composto da oltre 50 Paesi, in cui vivono quasi 4 miliardi e mezzo di persone, è ancora difficile trovare chi vuole investire in un ristorante che non sia classico o percepito come tale. I cuochi devono anche fare i conti con rifornimenti irregolari, scarsità di manodopera formata e con la difficoltà nel procurarsi gli strumenti del mestiere adatti a condizioni climatiche estreme. Sono problemi che conosce bene Christian Yumbi, uno dei pionieri della gastronomia a Kinshasa, in Repubblica Democratica del Congo, dove ha tre ristoranti. Il più famoso è Arôme, in cui valorizza ingredienti come l’olio di palma, il pesce di fiume o gli insetti – molto amati dai congolesi – utilizzando le tecniche culinarie apprese in Belgio. «Vedo che ci sono giovani chef che capiscono l’importanza di avere una visione in cucina e per cui io sono diventato un modello e una fonte di ispirazione. È importante, perché gli chef africani hanno un vero ruolo da svolgere in tutto il continente», dice.

Chef Diuveil Malonga di Meza-Malonga a Kigali in Ruanda

La nuova generazione

Tra i giovani chef, uno dei più noti è senza dubbio il congolese Dieuveil Malonga, che quattro anni fa ha aperto a Kigali, in Ruanda, il Meza Malonga (da tavola in bantu). Un locale da 18 coperti dove assaggiare la cucina delle nonne di tantissimi Paesi africani, da cui lo chef è andato a imparare religiosamente le ricette prima di riproporle a modo suo. A fine anno il Meza Malonga verrà trasformato in una residenza culinaria internazionale mentre lo chef aprirà un nuovo micro-locale nella sua fattoria di Musanze, nel nord del Ruanda.

KleinJAN nel deserto del Kalahari. Sotto, un piatto la tavola del ristorante di chef Jan Hendrik van der Westhuizen

L'esperienza del Sud Africa

Un discorso a parte, quanto a gastronomia, lo merita il Sud Africa. Tra i Paesi più sviluppati e vera potenza economica del Continente, è anche uno di quelli dove la scena culinaria è più vivace, in particolare a Cape Town. Negli ultimi anni qui sono nati progetti interessanti. Pensiamo a Tapi Tapi che in un quartiere nero di una città molto bianca vende dal 2020 gelati, dolci fatti solo con ingredienti indigeni e ha un successo strepitoso. Lo stesso anno la chef Mmabatho Molefe ha aperto Emazulwini: una piccola tavola dedicata alla cucina d’ispirazione Zulu. Il ristorante ha appena chiuso ma la chef continua a lavorare con delle cene pop-up e il suo esempio ha ispirato altri colleghi, come Vusi Ndlovu e il suo Edge, dove mescola storia personale e panafricana.

Un ristorante in piano deserto

Anche l’entroterra Sudafricano nasconde delle piccole perle. Come KleinJAN, minuscolo ristorante di lusso nel deserto del Kalahari. Qui lo chef stellato Jan Hendrik van der Westhuizen crea dei piatti in edizione limitata con quello che la natura circostante ha da offrire. Lo stesso principio alla base di Wolfgat sulla spiaggia di Paternoster, il più vecchio villaggio di pescatori del Paese. Il menu di 7 portate è ispirato al paesaggio e al meteo da cui dipende la disponibilità di prodotti come l’abalone, piatto simbolo del ristorante legato alle maree, o il pesce Snook, che entra nella baia in autunno. «Le persone iniziano ad apprezzare quello che facciamo – dice lo chef Kobus van der Merwe – e sono convinto che in un certo senso stiamo ridefinendo quello che intendiamo per alta cucina». Un’impresa che dal Mediterraneo al Capo di Buona speranza è senza dubbio solo all’inizio.

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