"La mia cucina africana non snatura quella francese. Gli altri chef? All'inizio erano scettici". Intervista a Mory Sacko

30 Giu 2024, 13:13 | a cura di
Lo chef afro-francese, considerato dal Time uno dei leader emergenti del 2023 e a cui ha dedicato una copertina, spiega al Gambero Rosso la formula del suo successo in Francia e come sta cambiando la percezione sul Continente africano

Con la sua simpatia e con il suo talento in cucina, dove combina con creatività influenze asiatiche, francesi e africane, lo chef francese Mory Sacko ha saputo conquistare il pubblico e le critiche internazionali. Lanciato nel 2020 dal programma televisivo Top Chef, ha imparato il mestiere nelle cucine parigine del Royal Monceau, dello Shangri-La e del Mandarin Oriental, dove è diventato rapidamente sous-chef di Thierry Marx. Il suo primo ristorante, MoSuke, contrazione del suo nome e di quello di uno schiavo africano diventato samurai, ha ottenuto una stella Michelin a pochi mesi dall’apertura facendo di lui, a soli 31 anni, uno dei simboli della nuova generazione di chef "afro-francesi". La nostra intervista.

Mory Sacko. foto@saint_ambroise. In apertura, foto di Odieux_Boby

Lei si identifica con il termine "afro-francese"?

Mi definisco un francese con origini dell’Africa Occidentale. Ma anche afro-francese mi va bene. Sono francese come qualsiasi altro francese, perché è la terra dove sono nato e cresciuto. Ma ho anche delle origini che mi piace celebrare, federare e ribadire, quando è necessario.

Un orgoglio evidente anche dalla sua iconica giacca da cucina.

L’ho disegnata io. L'idea era quella di combinare simboli forti come la giacca bianca, che naturalmente associamo agli chef, e che è nata in Francia, con un taglio a kimono, che ci riporta al Giappone, e un piccolo contorno di tessuto wax sul colletto e sui polsini che evoca l'Africa occidentale.

 Il suo nuovo Lafayette's, a due passi dall'Eliseo, è diverso da MoSuke...

Il contrasto è piuttosto netto. Con MoSuke abbiamo creato qualcosa di molto naturale, piccolo, intimista. Persino i piatti, fatti su misura, hanno note vegetali e minerali grazie all’uso di grès o di legno. Per il Lafayette's invece stavo cercando un luogo storico, esteticamente decisamente francese. Volevo ci fossero arazzi, stucchi, soffitti dipinti e persino un bel parquet scricchiolante. Ho sempre sognato di poter proporre la mia cucina, che è francese ma anche africana, in un posto come questo. Mi diverte molto e trovo bello che i clienti possano mangiare un mafé e ordinare contemporaneamente un’entrecôte béarnaise.

 In pochi anni è diventato una star nel mondo della gastronomia. L’americana Time le ha dedicato la copertina sui 100 "leader emergenti" del 2023. Che impatto ha avuto sul suo lavoro?

È stata una vera sorpresa! Essere su quella prima pagina mi ha senza dubbio permesso di fare un salto di qualità in termini di status e di riconoscimento. 

 Parlando di personalità, la sua ha parecchie sfaccettature.

In effetti, negli ultimi anni ho creato molti ristoranti e quindi molte storie parallele. MoSuke è un ristorante gourmet ed è il luogo in cui posso portare avanti le mie idee ed esplorare più liberamente la mia personalità. Nei MoSugo, invece, facciamo street food e ci si trovano solo cose che voglio mangiare di solito, come il pollo fritto o gli hamburger.

 Poi è arrivato anche Edo a Parigi, Lione e Marsiglia…

Sì, lì ho proposto ancora street food, ma servendo 500 persone al giorno ho dovuto creare piatti molto generosi, gourmet e che fossero anche d'impatto. Invece da Vuitton a Saint Tropez mi sono divertito a creare un menu da brasserie concettuale, con un vero lavoro sui prodotti e la presentazione dei vassoi per il pranzo, gli ekiben in legno, studiata nei minimi dettagli. E ora c'è il Lafayette’s.

 Come fa a gestire tutti questi progetti? Time Magazine ha scritto che lei sta creando un impero

Per fortuna non è ancora un impero (ride, ndr)! Più seriamente, bisogna sapersi circondare di persone giuste e rendersi conto che non si può essere ovunque. Io sono da MoSuke sia a pranzo che a cena. Negli altri ristoranti ci sono executive chef. Sono sempre molto coinvolto nella fase creativa, ma ho saputo passare la mano per la gestione della quotidianità. Lavoro con la mia compagna (Émilie Rouquette, ad del Gruppo Mory Sacko): il nostro modo di lavorare è decisamente cambiato in questi anni.

Come si crea un menu?

Parto sempre da un lampo di ispirazione, da un desiderio. A volte funziona tutto subito, altre volte è più complicato, bisogna cercare più a lungo. Prendiamo il Lafayette’s: vorrei aggiungere un piatto a base d’anatra alla griglia. Mi ispiro alla ricetta degli spiedini suya del Cameroon e a un’alrea in stile ranch-bbq texano: due interpretazioni della carne grigliata e vedremo solo alla fine cosa rimarrà di entrambe. Magari terremo le spezie suya all’inizio e poi laccheremo l’anatra con il barbecue texano. Oppure una delle due ricette prevarrà da subito...

Cita Texas e Camerun, ma oggi ha tempo di andare a cercare ispirazione fuori dalla Francia?

Non è facile, ci provo. Qualche mese fa sono andato in Mozambico per vedere le balene, i dugonghi e provare la cucina locale. Conosco molto bene l'Africa Occidentale, perché è lì che sono nati i miei genitori, ma non conosco affatto l'Africa Orientale. Il Mozambico è un po’ il tratto d’unione tra la parte australe e quella orientale, è possibile trovare la cultura sudafricana come quella del Corno d’Africa, per cui è interessante assaggiare la loro cucina.

Cucina Aperta è il titolo del programma che lei presenta da due anni sulla tv pubblica francese. Cosa significa per lei?

È un programma che mi permette di viaggiare attraverso la Francia alla scoperta delle sue regioni, dei suoi prodotti e delle persone che li producono. Credo che il terroir sia una delle più grandi ricchezze del Paese. È anche un'opportunità per dimostrare che una cucina come la mia non aggredisce né snatura il concetto di terroir. Porta semplicemente uno sguardo diverso e fresco, una visione diversa, che non vuol dire migliore. Sono due gastronomie che non si oppongono, ma possono coesistere.

 Lei è molto amato dai telespettatori ma cosa pensano di lei i suoi colleghi?

All'inizio forse erano scettici, perché la nostra prima stella è arrivata molto velocemente: magari pensavano che fosse solo un effetto mediatico. Poi, a poco a poco, hanno capito che sono uno chef che lavora sodo e con passione. Anche grazie al programma Cuisine Ouverte l’atteggiamento nei miei confronti è cambiato: abbiamo girato più di 120 puntate, il che significa che ho potuto discutere con più di 120 chef che ora mi conoscono personalmente.

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Nessuna diffidenza verso una gastronomia con influenze africane?

No, al contrario! Sia il pubblico che gli chef si chiedono di cosa si tratti e vogliono provarla. Sono felice di avere l'opportunità di stupirli con i miei piatti: se gli piace la mia cucina, magari non andranno subito in un ristorante africano per provare un pollo Yassa o un Thieboudienne, ma non avranno comunque preconcetti negativi. È anche una questione generazionale. Le persone tra i 15 e i 35 anni, anche 40, sono abituate a contesti multiculturali, hanno amici asiatici o africani. Per gli altri, invece, questa cucina a base di spezie e peperoncino è totalmente nuova e noi li aiutiamo a scoprirla.

 Cosa pensa della scena afro-gastronomica in Francia?

Tra gli chef che conosco, penso subito a Georgiana Viu, che l'anno scorso ha ricevuto la sua prima stella. È una donna brillante, con una forza che io non ho, e soprattutto è una chef incredibile. Ho avuto l'opportunità di mangiare nel suo ristorante, Rouge, e mi è piaciuto molto: ha una sua visione, che è una visione dell'Africa diversa dalla mia.

 Pensa anche ad altri?

A Parigi c'è Elis (Bond). Anche se non è sempre facile, lui è quello che propone le ricette più sperimentali e impattanti. A volte funziona, a volte no, ma in ogni caso osa. Altre due persone che adoro sono Fousse e Abdou (Djikine) del BMK Paris-Bamako. Il loro approccio è ancora diverso perché loro propongono i classici, rivisti e adattati in modo che piacciano a più persone possibili, un po’ come è stato fatto in precedenza con la cucina asiatica. Penso che sia un passo obbligatorio per internazionalizzare questi piatti e penso che loro lo facciano molto bene.

E in Africa?

In Africa ne conosco meno. C'è senza dubbio Dieuveil Malonga (del Meza Malonga), che si trova in Ruanda e che sta facendo un vero e proprio lavoro di fondo partendo dalll'agricoltura. Sta anche lavorando sulla formazione del personale: un problema reale nel continente. Ho l'impressione, però, che le cose stiano cambiando rapidamente. Un anno fa ero ad Abidjan (Costa d’Avorio) e ho visto che nella baia di Assinie erano stati aperti molti nuovi hotel e piccoli b&b di charme per una clientela molto esigente in fatto di qualità. Una clientela che ha capito che in Africa c'è una ricchezza che può essere sfruttata senza cercare necessariamente di imitare l'Occidente. Cosa che vale anche per la gastronomia.

Non le piacerebbe aprire un ristorante sul continente?

Oh sì! Era un sogno e ora è un obiettivo. Penso a Dakar o ad Abidjan e vorrei un ristorante sostenibile e di alta qualità. Soprattutto, però, non vorrei deludere i nostri ospiti. Da Lafayette’s o da MoSuke vengono molti ivoriani, camerunensi, persone abituate a viaggiare in tutto il mondo. Ecco, vorrei proporre loro anche n Africa un’esperienza all’altezza di quella che trovano a Parigi.

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