«La colazione per noi è un momento importantissimo» dice Antonia Klugmann. Chef e patronne insieme alla sorella Vittoria de L'Argine a Vencò, ristorante-bomboniera immerso nel verde di Dolegna del Collio, che ospita anche una manciata di stanze. Sono di supporto al ristorante, per quei clienti che vogliono prolungare l'esperienza dell'Argine fino al mattino successivo, fino al momento della colazione servita all'aperto durante la bella stagione, nel ristorante quando si abbassano le temperature. «E forse alla fine mi piace di più d'inverno: dalle vetrate si percepisce il freddo, c'è questa bella luce. Sembra di stare in un paese nordico».
La colazione dell'Argine
Gli otto tavoli dell'Argine, dunque, la mattina cambiano volto con una mise en place diversa: non le moderne ceramiche dell'Argine, disegnate da Klugmann e realizzate da un'artigiano locale (L'Arte nel Pozzo); ma vecchia argenteria, oggetti di famiglia, piatti retrò, pezzi di recupero «sono cose corrispondenti al mondo estetico con cui siamo cresciute» spiega Antonia. L'impressione, così, è di una dimensione molto intima. E anche l'offerta segue da presso l'idea di un momento domestico, con proposte a cui le stesse sorelle Klugmann sono legate, per storia o passione: «è la mia colazione ideale», varia un po' nel corso dell'anno, ma la sostanza è fatta di lievitati e dolci da credenza, sapori della sua infanzia, prodotti tipici scelti con attenzione, come i salumi D'Osvaldo, i formaggi di Zoff di Cormons, di Manig delle Valli del Natisone e di Zore di Taipana (per i caprini).
La cucina dell'Argine è attiva sin dal mattino - «portiamo tutto espresso» spiega – per pane e piccoli lievitati come pain au chocolat, torte di frolla, come la crostata con confettura di stagione e crema di ricotta, la cheese cake con base di stracchino o dolci tipici come il koch di patate «sono quelli con cui sono cresciuta, uso banana o mandorla per fare delle emulsioni che inserisco nell'impasto, così sono più scarichi di zucchero e grassi». C'è poi la polentina, che in questo momento è con albicocche: «è la ricetta di mia nonna». Poi uova, frutta, lo yogurt Manig «che è il più buono della storia». E il caffè, anche questo legato al territorio: «Sono Brand Ambassador illy da 5 anni, ho una miscela personalizzata, un blend creato su misura sulla base dei miei gusti. Ne volevo uno non troppo chiuso sul cioccolato e con una freschezza e acidità che dessero un buon bilanciamento tra note tostate e fruttate». Con questa visione si articola l'appuntamento del mattino, momento conclusivo di una ospitalità a 360 gradi, che comincia con l'accoglienza - «organizziamo arrivi scaglionati ogni quarto d'ora per non avere tutti insieme» - e continua a tavola e da lì nelle stanze, che quest'anno sono ancora di più.
Proprio in virtù di questa attenzione per la colazione, Antonia Klugmann è stata coinvolta nella giuria del Premio illy Bar dell’Anno 2025, prestigioso riconoscimento nell'ambito della guida Bar d'Italia del Gambero Rosso, che mira a rendere il rito del caffè ancora più sostenibile, sia in termini di impatto, di cura nel packaging e di migliore gestione del ciclo di smaltimento dei diversi rifiuti, sia sul fronte delle materie prime, prediligendo alimenti a filiera corta. La proclamazione del vincitore del Premio illy Bar dell’Anno avverrà nel corso dell’evento di presentazione della Guida Bar d’Italia 2025, in programma a Milano, il prossimo 26 settembre nella splendida cornice del Teatro Manzoni.
Il cambiamento come forma di adattamento e creazione
Recentemente il vecchio mulino a un passo dal ristorante è stato ristrutturato, aggiungendo 4 camere e nuovi spazi per gli ospiti, dove dominano cementine, pietre e legni di recupero, intorno a un caminetto moderno. A rinnovare ancora un po' uno spazio che, come che nello stile di casa Klugmann, è cresciuto per gradi: «Nel nostro caso è sempre tutto proporzionato, la struttura cresce coerentemente con il business, man mano che si presentano le possibilità e le necessità». Ecco allora che ogni due o tre anni si rinnova un'area o se ne ristruttura un'altra. Un po' come avviene in cucina, dove non c'è un cambio menu, ma un adattamento costante al variare delle stagioni: «Non sono per un cambio netto: man mano che un piatto finisce la sua vita viene sostituito. E non abbiamo piatti storici». Nessuna antologia a disposizione di chi si è perso quanto fatto in passato, Perché tutto qui è un processo dinamico, che impone di rimanere sempre all'erta, ma che offre anche l'impagabile possibilità di avere nel menu una fotografia effettiva della stagione che si vive.
Quella specifica e non altre: «Il pomodoro 2024 è diverso dal 2023, e quello era diverso dal precedente» spiega semplicemente. Parla di pomodoro come simbolo dei giorni che precedono l'autunno: «Qui i pomodori più buoni una volta erano in questo momento, quando l'estate incrocia l'autunno, un momento che mi piace tantissimo, più della piena estate quando ci sono solo solanacee e cetrioli. Adesso trovi le ultime melanzane, le ultime cipolle ma anche i primi funghi, oggi ho ricevuto dei porcini dal Cadore a breve ci saranno i friulani mentre nell'orto ci sono ancora le perenni ma già si trovano cavolacce, il cavolo riccio, il nero, le insalate. Per me è molto interessante».
L'autunno, la caccia, il selvatico
La metà di settembre la vede alla prova con sarda, cotta senza pelle confit à la minute per una zuppa con la mela e dei fagioli a dare profondità, ma anche pernici e fagiani. Un'apertura alla caccia? «Da tre anni collaboro con il Wwf, per me parlare di caccia è complicato: esistono bacini di biodiversità che vanno preservati, per tutelare la ricchezza genetica, ma anche perché togliere al selvatico è sempre problematico perché si tratta di equilibri delicatissimi che in molti casi abbiamo spezzato in maniera violenta e non rimediabile, anche se avremmo tutte le informazioni per evitare di distruggere l'ambiente. Custodire i predatori è importantissimo per regolare le popolazioni di alcuni animali». Eppure in Friuli la raccolta del selvatico si è sempre fatta, «sì, ma qui ha a che fare con l'abbondanza: nessuno raccoglie quel che è raro, sia per comodità che per mantenere una corretta relazione nell'ambiente. Siamo un paese sensibile per alcune cose e non concludente per altre».
Il pane di Vencò e il futuro del fine dining
Per questo forse, se c'è un piatto simbolo dell'autunno 2024 all'Argine è il pane. Un piatto di recupero non stagionale ma che sintetizza bene un certo lavoro sulla materia prima e rimanda alla panada friulana la zuppa tipica di pane ammollato con cipolla e ritagli di carne. Niente carne o latticini, per Antonia, ma solo pane vecchio di un paio di giorni tagliato a quarti e ammollato a lungo, poi ancora tagliato a fettone arrostite in padella con olio, poi tagliate ulteriormente e bagnate con acqua di semi di finocchio, riduzione di vino bianco cipolla, e glassato con una base di panada setacciata. «È una specie di scarpetta con il pane arrostito alla griglia e supermorbido, glassato con crema di pane. Ha una consistenza pazzesca, super fondente, pare ci siano dei latticini ma non ci sono». Un piatto contadino in un fine dining? Ma non sarà allora che certa ristorazione è finita, come dicono in molti? «No, non penso lo sia: credo piuttosto che nel nostro paese non esista un cliché su come debba essere la ristorazione: in Italia ogni regione è diversa dall'altra per storia, tradizioni, complessità economica. Credo che debba corrispondere una ristorazione al luogo in cui opera. Chi avrebbe scommesso su un posto come L'Argine? Eppure credo che la nostra sia una regione con enormi potenzialità turistiche e storiche, una biodiversità incredibile e una varietà anche culturale e linguistica enorme. Alla fine ogni territorio ha vantaggi e svantaggi, non credo neanche sia facile avere un posto a Milano o Roma, con numeri potenziali alti ma anche costi importanti».