Antonia Klugmann è una donna che conosce bene i confini delle cose. Nata a Trieste e figlia di contaminazioni dettate da un albero genealogico incredibilmente fitto di tradizioni mitteleuropee, che vanno da Leopoli a Molfetta e da Ferrara a Trieste, oggi nel suo ristorante L'Argine a Vencò è protagonista del melting pot culturale e gastronomico più stratificato che abbiamo in Italia. Cuoca, classe 1979 e una visione che va oltre qualsiasi linea di demarcazione. «Riesco a vedere il confine fisico tra l’Italia e la Slovenia. Qui dove sono io la terra ha avuto a che fare con tante culture e tutte assieme, tutte in contemporanea in un’unica città. Si tratta veramente di un unicum fatto di tempo e di rispetto per tradizioni che si sono amalgamate lentamente. Da triestina, il fatto di essere sul confine è una cosa che mi appartiene profondamente». Vencò è a Dolegna del Collio in provincia di Gorizia e Klugmann, con le mani raccolte e la schiena dritta, parla con una luce negli occhi che la fa apparire o essere costantemente emozionata. Lei stessa a Milano, sul palco di un evento, definì la sua cucina un movimento continuo, «tornasole di chi sono io più di qualunque espressione della mia vita», e poi «i miei piatti sono un’esigenza di sintesi, espressione compiuta attraverso gli ingredienti in cui tecnica ed estetica sono totalmente asservite e mutevoli. Strumenti per il lavoro». Parole preziose per la cucina italiana e il momento di consapevolezza storica.
Lei provenire da una storia fatta di confini.
Sì, ovviamente. Credo che sia importante mettersi in relazione con la nostra giusta posizione nel mondo, una cosa che ha a che fare con la conoscenza del passato e che non ti fa sentire solo, neanche quando cucini. Questa è una ricchezza fatta di cultura e tradizioni che però penso si debba guardare con quella gioia infantile che ti permette poi di giocarci. Se tu riesci a giocarci con le tradizioni, senza sentirtici impigliato, entri in una cosa che ti permette veramente di godere ancora di più del nostro mestiere.
Quanto è difficile "giocare" con la tradizione?
Ci devi giocare e devi sempre farlo con occhi nuovi. Non devi mai sentirti vincolato da quello che hai visto fino a quel momento, a volte a tal punto da non riuscire a metterci niente di tuo. La ricerca da noi si traduce nel tentativo di trasformare i piatti nella conseguenza di un cambio di sguardo, mantenendo fisso il punto di vista che deve dargli prospettiva. La componente creativa è il motivo per cui faccio questo mestiere.
La creatività è un dono o una capacità che si può acquisire?
Possibile che sia una dote, ma poi te la devi comunque guadagnare con la fatica questa possibilità, perché nessuno ti regala la possibilità di essere creativi. Bisogna lavorare intensamente e non esiste, secondo me, un modello preciso da imitare, ogni ristoratore deve costruirsi un sistema imprenditoriale su misura rispetto a dove vuole andare.
E i giovani, come possono avvicinarsi a questo mestiere?
Guarda, la sfida più grande è proprio quella di trasmettere ai giovani, che magari si sentono schiacciati sotto dei modelli che credono inamovibili, il fatto che quello che vedono è solo la base dalla quale devono partire. Che dietro, al di là di ogni mentore, c’è un modello personale da costruire sulla base della propria scala di valori e sulla base del proprio concetto di felicità. Bisogna avere ben chiaro perché si fa questo mestiere e molto spesso i ragazzi non si fanno questa domanda la mattina quando si svegliano.
Lei perché fa la cuoca?
Io non posso smettere di cucinare, questo è un dato di fatto fondamentale nella mia vita. A me piace tantissimo cucinare, io sono innamorata della cucina. Rispondo a un mio desiderio profondo e in nessuno momento della giornata smetto di essere cuoca. Sono molto fortunata in questo, perché la cucina la puoi riempire di qualsiasi cosa. Se ti piace il design puoi mettercelo, se ti piace l’architettura anche, se hai a cuore l’ambiente puoi farlo, insomma è bellissima questa cosa
Come si fa a trasmettere tutto questo all’esterno?
Anche in questo siamo fortunati. Una volta i cuochi avevano a disposizione dei sassolini che se lanciati in acqua al massimo provocavano due piccoli cerchi. Oggi invece abbiamo strumenti grandi come macigni che sono capaci di muovere le acque in maniera molto più consistente. A volte pure troppo.
Il suo cerchio concentrico preferito?
I ragazzi che cucinano con me e che un domani cucineranno influenzati da me. Se oggi sono capace di trasmettere loro quel concetto di felicità e realizzazione, se posso trasmettergli cose positive, loro saranno il futuro di un lavoro meraviglioso dove metteranno del loro. I ragazzi oggi devono essere forti e consapevoli di quanto questo è importante, mettendo da parte quelle ambizioni che non gli appartengono e che li fanno sentire fragili vittime di un sistema.
Cosa si sentirebbe di dire ai ragazzi che oggi fanno questo mestiere o che studiano per farlo?
Le persone in generale dovrebbero solo svegliarsi la mattina e domandarsi se gli piace quello che sono chiamati a fare ogni giorno. La felicità e la realizzazione che ti dà la fatica quotidiana è un buon riscontro. Ci sono tanti modi di stare in cucina, devi solo trovare il tuo. Puoi essere un creativo e trovare stimoli lavorando nel cambiamento continuo, ma puoi anche essere una persona a cui piace assecondare gli standard e trovare realizzazione nella certezza delle cose che si ripetono. Voglio dire, si può stare in cucina su una nave, in una mensa, in una trattoria, in campagna o in città e perfino in un piccolo luogo di confine
C’è un luogo comune che si sente di destrutturare per farne un messaggio collettivo?
Sì, la stagionalità. Cucino da più di vent’anni e sono cambiata tanto. Quindi il luogo comune che voglio prendere di mira è proprio la stagionalità, ma non quella dei prodotti, piuttosto quella delle persone. Perché la rivoluzione di uno sguardo che di colpo ti fa vedere un cardo in modo diverso è il frutto di un lavoro costante di rivoluzione intima. Siamo persone sensibili alle stagioni della natura che ci circonda, ma soprattutto dovremmo essere sempre in contatto con il nostro intimo mutare spinto dalla vita. È molto più difficile valutare uno sguardo, piuttosto che una tecnica. Si rimane ammaliati da una forza centrata sull’importanza di crescere sé stessi. Un fattore che lega la cucina all’apertura di qualsiasi confine e al valore di essere un grande contenitore di strumenti per costruire cultura. Anche perché, solo così può accedere che le nuove generazioni tornino ad appartenere a progetti capaci di generare quel senso di appartenenza fatto di crescita personale, progresso professionale e interazione sociale.