Quando è apparso sul palcoscenico mondiale, Jeremy Chan pareva incarnare l’uomo del futuro per quel suo mescolare culture, lingue, studi e riferimenti. Cino-canadese, londinese cittadino del mondo, ha aperto Ikoyi nel 2017 con l’amico e socio Iré Hassan-Odukale. Ikoyi – nome di uno dei quartieri più ricchi di Lagos, dove è nato Iré Hassan-Odukale – è un rimando all’Africa Occidentale: trasposto in cucina, è diventato un paniere che accoglie spezie e materie prime West African, inusuali nel contesto dell’alta ristorazione. Quella di Chan non è una cucina nigeriana, neanche alla lontana, ma mette suggestioni e ingredienti africani sullo stesso piano di quelli britannici, asiatici, scandinavi, e lo fa lo fa in un contesto così cool che ha attirato fin da subito l’attenzione (conquistando in breve 2 stelle Michelin). Tanto è bastato per accendere un riflettore potentissimo su una cultura gastronomica ancora fuori dai radar. Era il segnale che mancava per dare alla cucina dell’Africa Occidentale – per quanto sia fragile questa definizione – il posto che merita, alla stregua di quanto accaduto in anni passati per altre cucine del mondo.
Londra apripista
E la multiculturale Londra, cross over di genti, culture, tradizioni e sapori, è il posto giusto per farlo: tanto che nell’ultima edizione della guida Michelin UK la rosa dei nuovi neostellati include ben due ristoranti dell'Africa Occidentale. Sono Akoko di Aji Akokomi (suo anche Akara, che offre la tipica frittella west african di fagioli in un locale moderno, tutto legno chiaro e mattoncini ai margini del Borough Market) con lo chef Ayo Adeyemi, e Chishuru di Adejoké Bakare (prima chef nera stellata del Regno Unito e tra le pochissime al mondo), che ha conquistato un macaron in meno di 6 mesi dall’apertura del suo nuovo locale – «Ed è difficile pensare a uno chef che se la meriti di più» ha scritto Tim Hayward del Financial Times – merito di una proposta creativa, di una sapiente selezione di spezie e salse in quella che lei chiama «modern west African cuisine», che mescola tradizioni Yoruba, Igbo e Hausa.
Entrambi i ristoranti servono raffinata cucina di ispirazione nigeriana che risponde a tutti i canoni del fine dining, tasting menu incluso, pure se Bakare preferisce prendere le distanze da certe ritualità legate all’alta ristorazione in direzione di uno stile più informale, caldo e accogliente in cui il menu in gran parte fisso vuole guidare i clienti disorientati di fronte a piatti e ingredienti sconosciuti, oggi più familiari anche grazie a questi ristoranti.
La punta dell'iceberg delle cucine subsahariane
Sono la punta dell’iceberg di una schiera di insegne che esplorano le molte cucine subsahariane – parlare di cucina africana è vago e impreciso quanto parlare di cucina europea – come il locale di tapas nigeriane Chuku’s dei fratelli Emeka e Ifeyinwa Frederick, che hanno sopperito così alla mancanza di un posto che celebrasse «a voce alta e con orgoglio» le loro tradizioni, e sperano di moltiplicare le sedi in futuro. Finanziati lo scorso anno dalla BeyGood Foundation di Beyoncé con 8.000 sterline, sono nati nel 2016 come pop up e hanno poi trovato una sede stabile, come è accaduto anche per Chishusru e per il locale senegalese Little Baobab: i temporary consentono di superare i molti ostacoli per intraprendere un’attività ristorativa nella capitale britannica. I fratelli Frederick sperano di suscitare la curiosità verso altre cucine africane, ormai pronte ad affermare con forza la propria identità e occupare un loro spazio nel mondo con una ristorazione d’autore, colta ed elegante, vero lasciapassare per un dialogo culturale che investe arte contemporanea, letteratura, artigianato artistico, musica afrobeat. Ormai sdoganate, queste gastronomie – non più gregarie, relegate tra le pareti domestiche o in ristoranti a basso costo – sono voci potenti e pervasive, destinate a crescere considerata l’influenza e la presenza capillare in tutto il mondo.
Le tavole di Marsiglia e Parigi
A Marsiglia il tre stelle AM par Alexandre Mazzia mescola Provenza, Mediterraneo e Africa in una cucina meticcia e molto originale dove spezie (soprattutto galanga, zenzero e cumino) verdure, pesce, sono protagonisti di piatti sorprendenti, inebrianti, vividi, complessi, come l’Anguilla affumicata al cioccolato, vero signature dish. Mazzia (che cucinerà alle Olimpiadi di Parigi 2024 con Amandine Chaignot e Akrame Benallal) è cresciuto in Congo, avviato a una carriera nel basket, ha studiato in una scuola di gastronomia e poi fatto esperienze con Pierre Hermé, Alain Passard, Santi Santamaria e molti altri nomi illustri; Marsiglia è la base operativa in cui la sua cucina trova un habitat ideale. Luogo di transiti, di incontri e di culture lontane che Mazzia celebra integrando ingredienti e tecniche, creando galassie di piatti e piattini, di main e molti sides che riempiono il tavolo come i sapori fanno con il palato in un intreccio audace, di chiara impronta congolese, sempre guidato dalla triade spezie, fumo e peperoncino (oltre 40 tipi diversi). Ha un passato a Marsiglia anche Georgiana Viou, stellata dal 2023 al Rouge di Nimes, dove firma una cucina mediterranea in cui mixa sapori francesi e beninesi. Autodidatta, autrice di libri sulla cucina del Benin, è arrivata in Francia per studiare alla Sorbona, e solo in un secondo momento ha scelto la cucina, con grandi risultati. A Parigi c’è l’astro nascente Mory Sacko, classe 1992, nato in Senegal da genitori del Mali. Cresciuto in Francia con una passione per il Giappone conquista con la sua personalità e la cucina originale. Il suo MoSuke – 1 stella Michelin – celebra le culture che lo hanno formato in un un viaggio transcontinentale che tocca Europa, Africa e Asia, e lui, Young chef award del 2021 per la Michelin, nel settembre scorso è stato inserito tra i leader della prossima generazione dal Time.
L’avventura negli Usa
Nel 2019 la 100 Next del Time ha segnalato anche Kwame Onwuachi: cuoco, scrittore, personaggio televisivo con una storia incredibile. Premiato con il One to Watch dalla 50 Best 2023 per il suo Tatiana, aperto nel 2022 al Lincoln Center e dedicato alla sorella maggiore, ha raccontato la sua parabola in Appunti di un giovane chef nero (diventato poi un film): gli inizi vendendo caramelle nella metropolitana per aprire un’attività di catering, lo spaccio, gli anni in un villaggio in Nigeria con il nonno “per imparare il rispetto” e conoscere le sue radici, le esperienze nei grandi ristoranti d’America, fino all’apertura a Washington di Shaw Bijou, dalla vita brevissima. La sua è una cucina afro caraibica, fatta di gumbo, egusi, pastrami suya e curry di pollo, di ricordi della diaspora e di affrancamento.
Il libro si ferma prima dell’apertura del Tatiana, in cui la voglia di riscatto conquista una forma più gentile e fruibile, in un racconto gastronomico che ripercorre la sua storia. A breve tornerà a Washington con Dogon by Kwame Onwuachi, con un concept ispirato alla figura di Benjamin Banneker e alla sua appartenenza alla tribù Dogon dell’Africa occidentale, con una cucina afro-caraibica che si ispira al suo background nigeriano, giamaicano, trinidadiano e creolo. È di nuovo il west Africa che bussa alla porta principale della ristorazione d’autore; il nigeriano Ayo Balogun di Dept of Culture di Brooklyn (uno dei migliori nuovi ristoranti del 2022 secondo Eater) ci tiene a definire la sua cucina del centro-nord nigeriana, a sottolineare la varietà e la ricchezza della cultura alimentare del Paese. Al contrario il senegalese Pierre Thiam, pioniere di questo movimento e patron del format pop newyorkese Teranga, spiega che la cucina dell’Africa occidentale sottende un’unità culturale che trascende i confini ufficiali imposti dall’esterno, che non danno conto dell’identità dei popoli: «non sono i nostri confini». Guardano invece all’Africa occidentale Mamba Hamissi e Nadia Nijimbere del Baobab di Detroit, tra i cinque finalisti del James Beard Outstanding Restauteur per il 2024, già sotto i riflettori della critica Usa. Mentre a New Orleans, Serigne Mbaye (esperienze, tra gli altri, da Atelier Crenn e Atelier Joel Robuchon di New York) dal 2022 ha fatto incetta di premi – tra cui James Beard Award come miglior chef emergente, tra i 12 Best New Restaurants in America di Eater – con il suo Dakar: cucina senegalese con twist creolo.
La strada (in salita) italiana
Cosa succede in Italia? Siamo ancora molto indietro, la ristorazione dell’Africa Subsahariana è un’imprenditoria per lo più sotterranea di cui è difficile anche fare una stima, ancora circoscritta alle sole comunità migranti. Qualcosa però inizia a muoversi, molto lentamente, soprattutto con pop up o bistrot come Laakam, Malaika, e l’afroitaliano Teranga a Milano o il ghanese Asanka a Brescia. Lo racconta Victoire Gouloubi, chef e volto televisivo anche del Gambero Rosso Channel. Congolese, in Italia dal 2002, ha lavorato nell’alta ristorazione mescolando tecniche contemporanee, sapori e ingredienti italiani e africani. Oggi private chef, denuncia la mancanza di filiere di qualità dei prodotti africani, di ristoranti moderni che sappiano esprimere una cucina autentica e attuale, ma anche di nuovi chef: «molti giovani emigrano dove ci sono comunità meglio integrate, come in Francia». C’è poi la cronica resistenza del nostro Paese nell’accettare le altre culture gastronomiche, frutto di un radicato preconcetto che pone le altre cucine in un ruolo subalterno rispetto all’italiana, ignorando non solo la ricchezza culturale e gastronomica che possono portare, ma anche il bacino di utenti potenziale di un Paese in cui esistono moltissime famiglie miste. La questione è lunga e passa per una comunità patriarcale ed egoriferita che, nella migliore delle ipotesi, guarda con paternalismo le altre culture, quando non con disinteresse o disprezzo, eredità di un colonialismo anche intellettuale. «In Italia non c’è spazio per le cucine africane, né nelle scuole, neanche in quelle alberghiere, né in tv; è tutto da fare, a partire dal lessico: si parla ancora di cucina africana, come fosse una sola». L’esempio potrebbe essere quello della cucina cinese, che nel tempo sta imponendosi nella sua complessità. «Ma appena apre la bocca un africano c'è un altro atteggiamento, la nostra cucina non interessa».