Ci sono cascati tutti, nella retorica della nonna in cucina. Ci è cascato Vito Mollica, che per qualche tempo ha chiamato (non per sua scelta, va detto) il suo ristorante fiorentino in Palazzo Portinari Chic Nonna, uno dei più grossi ossimori della scena gastronomica mondiale (e comunque nome bruttino), e pure il punkettone chef Rubio, che anni fa dedicò alle arzille ave un tour per l’Italia, “Nonne do it better”. Non ha resistito nemmeno Giuseppe Guida, che ha chiamato il suo ristorante a Vico Equense Antica Osteria Nonna Rosa. Michelangelo Mammoliti, uno dei talenti più sopraffini della generazione degli chef attorno ai quarant’anni, che oggi domina la scena, racconta volentieri che il punto di partenza del suo personale viaggio gastronomico sia stato il ritrovamento di un quaderno con le ricette della sia nonna. E chiunque frequenta i ristoranti di alto bordo ha ascoltato spesso gli chef sproloquiare sulle influenze che la mamma della mamma (o del papà) ha avuto sulla sua formazione culinaria.
Il falso mito delle nonne
Ecco, basta. Non è vero che tutte le nonne cucinano bene. Alcune di loro preferiscono giocare a burraco con le amiche e poi per cena scongelano una confezione di “Quattri Salti in Padella”. Altre, poverine, se usano un fornello poi rischiano di dimenticarlo acceso. Altre ancora fanno la spesa alla Lidl, altro che mercato del contadino e preidi Slow Food. Le mie erano una cantante lirica e la titolare di un negozio di alimentari. E comunque sono morte prima che io nascessi, non ho informazioni sul fatto se cucinassero o meno, e se lo facessero con noia o passione. Solo per questo dovrei sentirmi un orfano gastronomico? Un nipote di un dio minore?
C'è caso e caso
In qualche momento qualcuno ha deciso che le nonne diventassero una fonte di ispirazione universale, il totem attorno al quale costruire la propria narrazione mnemonica. Come se poi la memoria, qualsiasi memoria, buona o cattiva che sia, non ci inseguisse in ogni cosa facciamo. E questo accade non soltanto per gli onesti osti di provincia che portano avanti locali di famiglia, che davvero possono dire di riprodurre le ricette di due generazioni prima, ma anche per gli chef di avanguardia che cercano nuove tecniche e nuovi racconti, ma sempre là finiscono, alla retorica da Mulino Bianco.
Tradizione inventata
Il fatto è che la nonna è una figura inclusiva, non divisiva, un innocuo ma universale, e perciò funzionalissimo, garante simbolico, spesso più astratto che reale, delle saghe domestiche a cui ci si vuole richiamare. L’angelo di un focolare arcadico, il testimone a proprio carico di un legame con un passato che assomiglia molto a quello raccontato nei suoi podcast e nei suoi libri da Alberto Grandi, il professore dell’università di Parma che ogni tanto ci ricorda che la tradizione è sovente un’invenzione in post-produzione, un modo per giustificare una linea ereditaria che non c’è e per nobilitare un presente scadente.
Libertà contro passato
Naturalmente questo non vuol dire che non ci siano davvero chef che abbiano imparato a cucinare nei pomeriggi trascorsi con una nonna baby-sitter, e che abbiano ancora nel palato il ricordo di certi sapori antichi. Ma in molti casi il ricordo di questa “legacy” sembra avere un risvolto psicanalitico. E in altri sembra una furbata da marketing a basso costo: la nonna è una figura amata da tutti, che dà una patente di autenticità anche alle trovate gastronomiche più astruse e che riesce a far accettare uno chef di avanguardia anche al pubblico più semplice. Ed è buffo pensare che ci sono voluti decenni perché gli chef conquistassero la libertà espressiva che vantano ora e oggi che l’hanno finalmente conquistata invece che rivendicarla con orgoglio preferiscano schiacciare il tasto della nostalgia canaglia, quasi tutta questa emancipazione li spaventasse.
Siamo di fronte a un enorme equivoco, probabilmente. A un anacronismo stellato. Le nonne, nemmeno quelle di Ferran Adrià e René Redzepi, non sferificavano, non affumicavano se non quando dimenticavano qualcosa sul fuoco, non fermentavano, non conoscevano la cucina molecolare né quella sottovuoto. Ignoravano le pratiche sostenibili. Facevano un menu degustazione solo perché o mangiavi quello o digiunavi. E praticavano una cucina spesso ripetitiva, di poche ricette ripetute allo sfinimento. Sovente la loro cucina era pesante e indigeribile, fatta di porzioni gigantesche, di memoria della fame, di condimenti invadenti, senza alcun equilibrio nutrizionale salvo quello dettato – nei casi più tristi – dalla miseria e dalla privazione, che sono le dietologhe più efficienti. Ma alla fine, ne sono certo io che sono un nipote mancato, le nonne vinceranno sempre. Vote for grandmother, for ever.