L'ascesa di Grom. Storia di un successo all'italiana
Prima hanno dovuto rinunciare alla presunzione di artigianalità, ora si allontana definitivamente quel bollino made in Italy che per anni è stato il vanto del brand Grom, sinonimo dell'imprenditorialità all'italiana che sa farsi valere all'estero. Puntando sulla specializzazione alimentare, ca va sans dire. Solo qualche tempo fa l'azienda fondata nel 2003 da Guido Martinetti e Federico Grom era incappata in una querelle burocratica di quelle che divide il Paese tra assolutamente favorevoli e irrimediabilmente contrari – come spesso è accaduto in questi dodici anni di scalata al successo del marchio torinese – messa di fronte (dal giudice) all'inconciliabilità della lavorazione artigianale con la produzione di gelato su larga scala. Perché la storia di questi due soci visionari, partiti da Torino con un sogno e diventati case history per gli analisti finanziari di tutto il mondo, parla chiaro: dall'inaugurazione del primo punto vendita in piazza Paleocapa a Torino molto è cambiato, in ascesa costante.
Unilever acquista Grom. Alla conquista di nuovi mercati
Oggi il gelato italiano che ci rappresenta sulla scena internazionale conta 67 punti vendita, da New York a Tokyo, da Parigi a Malibu; senza considerare la copertura capillare sul suolo nazionale. Ma da poche ore qualcosa è cambiato e i numeri sono da capogiro. Da oggi Grom entra nell'orbita di Unilever, colosso da 50 miliardi di euro di fatturato già proprietario dei marchi Algida, Carte d'Or, Magnum (solo per citarne alcuni correlati). La società franco-olandese ha acquistato il brand torinese, che oggi fattura 30 milioni di euro l'anno, dopo una trattativa di cui ancora trapela poco, se non che Martinetti e Grom continueranno a gestire l'azienda pur facendo capo al gruppo Unilever, mentre la Gromart (la società per azioni a cui fa capo la catena di gelaterie, che già vede tra i principali soci tanti attori internazionali e il gruppo Illy) sarà inglobata per incorporazione in Unilever. Ancora sconosciute le cifre della trattativa. Mentre non mancano le prime dichiarazioni di rito, affidate alle parole di Federico Grom: “Riteniamo che Unilever, con la quale condividiamo la cura della qualità e della filiera agricola, sia il partner giusto per fare un ulteriore passo in avanti e portare i nostri prodotti in nuovi Paesi” . L'obiettivo, quindi, è quello di concedere maggior respiro a un'azienda in crescita esponenziale, anche a costo di rinunciare alla proprietà. Ma la produzione continuerà a far capo a Torino, assicurano da Grom, e gli ingredienti saranno sempre quelli in arrivo dall'azienda biologica Mura Mura.
E la storia si ripete: negli ultimi dieci quante aziende dell'alimentare italiano hanno ceduto all'estero? Scopritelo nella gallery. Ma non pensiate che ciò voglia essere qualcosa di malinconico. Che grandi corporation globali vengano ad investire in brand italiani è solo positivo, a patto che i denari che ne ricavano (ovvero i soldi che oggi entrano nei conti correnti bancari di Martinetti&Grom, ad esempio) vengano poi reinvestiti in Italia su nuove idee, nuovi rischi, nuovi percorsi di innovazione. Non si tratta di un fenomeno preoccupante, insomma, si tratta però di qualcosa da gestire con cura. Se l’Italia continuerà a sfornare eccellenze a ritmo serrato il fatto che qualcuna di queste venga incorporata costituirà un fattore fisiologico e sano, esattamente come il fatto che qualcuna di queste avrà la capacità di diventare globale a sua volta. L’essenziale è che il giro economico non si fermi e che si continui a intraprendere e a rischiare. Può succedere, però, solo in un paese che offra agli imprenditori le precondizioni necessarie per farlo a partire dalla burocrazia e dal funzionamento della giustizia. Dire che su questo c’è molto da lavorare è un eufemismo…