Cucine dorate (?)
Cucine che diventano set, e studi televisivi che fanno spazio a fuochi a induzione e stoviglie d’ordinanza. Oggi, da qualche anno, parlare di cibo in tv è un biglietto da visita che non si nega a nessuno. Talent, reality, lezioni pratiche e collegamenti in esterna. Sfide all’ultima mantecatura e parate di prodotti che raccontano il territorio italiano. Del resto, anche se c’è voluto un po’ per scoprirlo, esiste forse argomento più nazionalpopolare del cibo? A muoversi su un terreno che porta indubbiamente risultati “facili” in termini di audience sono in molti, a partire dai più titolati, gli chef. Ma il passaggio in tv, la conquista di uno status symbol che porta i professionisti del mestiere a smarcarsi dai ritmi serrati della cucina e li proietta nel jet set, non sempre lavora a favore del diretto interessato, cui si contesta l’integrità e l’opportunità di tornare a lavorare nell’ombra: tutti che aspettano di scoprire il segreto per cucinare l’amatriciana perfetta, mentre a gran voce suggeriscono agli chef di tornare in cucina. Il successo si paga, e Carlo Cracco – capro espiatorio di una compagine di star chef sempre più nutrita – ne sa qualcosa. Eppure comunicare il cibo, e la cultura gastronomica di un Paese che intorno a un tavolo ha costruito buona parte della sua identità, dovrebbe essere obiettivo di grande valore; un tempo fu Mario Soldati, e dopo di lui Luigi Veronelli, quando l’Italia si riscopriva un po’ più ricca grazie al patrimonio di risorse agricole e tradizioni gastronomiche tramandate nel tempo (a tal proposito non perdetevi l’approfondimento sull’identità della cucina italiana negli anni Settanta che uscirà sul numero del magazine Gambero Rosso del mese di gennaio 2018).
Chef in tv. Da star a bersaglio
Oggi le strategie di comunicazione hanno spostato l’asse sull’ultimo anello della catena, proprio quello degli chef, nuovi eroi di un’epopea che li vede calcare i palchi da attori consumati, novelli guru del mangiare di qualità, e nei casi meno riusciti impacciati mestieranti a copione (o peggio ancora opinionisti da salotto televisivo). Una dinamica che se da un lato distribuisce allori, immancabilmente porta con sé parodie e goliardiche messe in scena. Linfa vitale per la comicità pungente di Maurizio Crozza, che un anno fa battezzava il personaggio del cuoco che parla con il cibo Germidi, liberamente tratto dallo chef vegano Simone Salvini; ultimo pallino di Antonio Albanese (già in passato alle prese con la parodia di un esilarante sommelier), che il nuovo libro lo dedica tutto al personaggio dello chef Alain Tonné, creato 15 anni fa e ora pronto a vestire i panni del protagonista assoluto in Lenticchie alla julienne (ne riparleremo). Tema ispiratore del cinepanettone 2017, che uscirà nelle sale il prossimo 14 dicembre. Natale da chef, per la regia di Neri Parenti e con Massimo Boldi nel ruolo di protagonista, è la consacrazione (o l’ennesima batosta?) dell’universo dorato delle cucine.
Natale da chef
O meglio la proiezione di tutti gli stereotipi che la comunicazione massiccia (e distorta) di quelle cucine ha saputo accumulare negli ultimi anni, ora alla berlina di una comicità che certo non brilla per sagacia e savoir faire, ma al cinema ci porta proprio tutti. Il fatto che quest’anno la produzione abbia scelto di giocare con chef blasonati e padelle la dice lunga su come siano cambiati i tempi. La trama, prevedibilmente, è solo un pretesto per mettere in scena battute dozzinali, gaffe e situazioni da cabaret, ma qualche spia di come l’universo della ristorazione professionale abbia finito per prestarsi a facili ironie la fornisce ugualmente. C’è il protagonista, Gualtiero Saporito (e ogni riferimento al maestro Gualtiero Marchesi non è puramente casuale, ma fischieranno le orecchie anche a Filippo Saporito, chef della Leggenda dei Frati di Firenze) interpretato da un Massimo Boldi che crede di essere un grande chef, e invece non fa altro che ideare ricette assurde e immangiabili. Intorno a lui, le macchiette di una cucina che cerca di darsi un tono, ma brilla per mancanza assoluta di professionalità: il sommelier astemio, la bella pasticciera pagata per uscire dalla torte e completamente incapace, l’aiuto cuoco che non riconosce i sapori. Insieme, l’improbabile gruppo si appresta a cucinare per il G7 riunito a Trento, con risultati che non richiedono un grande sforzo di immaginazione, e gag a profusione. “Una storia attuale”, la definisce Boldi, che mette al servizio di una parodia anticasta (con i capi di Stato piegati dal mal di pancia) il bersaglio facile della cucina stellata (con cameo di Gianfranco Vissani, pioniere degli chef in tv, che nel film recita la parte del critico gastronomico). È lui stesso, nelle interviste lancio di questi giorni, a ricordare Luigi Veronelli e il suo modo garbato di comunicare il cibo. E poi invoca l’agognato ritorno alla semplicità: tra chef disastrosi e sbruffoni, “meglio mangiare un semplice piatto di spaghetti al pomodoro”, chiosa. La semplicità ci salverà. Poco importa che un buon piatto di spaghetti al pomodoro bisogna saperlo cucinare. E semplice non è.
a cura di Livia Montagnoli