Perché Mussolini e il partito fascista osteggiavano gli spaghetti

16 Gen 2025, 16:19 | a cura di
La miniserie M - Il figlio del secolo riporta in auge le contraddizioni di un regime che disprezzava la pasta, che in quegli anni, con l’emigrazione di alcuni italiani in America, stava diventando il simbolo di un’identità collettiva

«Perdente, meschino, vile, bugiardo, un po’ Alberto Sordi e un po’ Tony Soprano». È così che si presenta Benito Mussolini – interpretato da Luca Marinelli – nella miniserie, M - Il figlio del secolo, diretta da Joe Wright e basata sul romanzo di Antonio Scurati. Dal suo debutto su Sky Atlantic e Now, il 10 gennaio 2025, la produzione italo-francese ha catturato l’attenzione degli spettatori italiani e acceso innumerevoli dibattiti. Eppure, tra le molte scene di vita quotidiana del dittatore italiano, manca un elemento: Mussolini non mangia mai pasta. Non è un dettaglio trascurabile, ma una scelta che richiama una delle più sorprendenti battaglie culturali del fascismo: l’ostilità verso il cibo oggi più amato dagli italiani.

Il fascismo contro gli spaghetti

Quella che oggi chiamiamo pasta, dai mille formati e colori, nella prima metà del Novecento era impensabile: esisteva solo la pasta lunga, e nella maggior parte dei casi, erano spaghetti. O meglio, maccheroni (come ci insegna anche Alberto Sordi nel film Un americano a Roma). Nel primo dopoguerra, infatti, mentre il fascismo conquistava lentamente il potere, gli italiani scoprivano la pasta come simbolo di un’identità collettiva. Era stato l’emigrare oltreoceano a trasformare un piatto regionale in un’icona nazionale, e nelle comunità italiane negli Stati Uniti che la pasta diventava un alimento universale: economico, facile da conservare e capace di adattarsi ai condimenti regionali. Quando gli emigranti tornarono in patria, portarono con sé questa passione culinaria, ma anche un pezzo di quel sogno americano che il fascismo guardava con sospetto.

Secondo Alberto Grandi e Daniele Soffiati, autori del libro La cucina italiana non esiste, il regime fascista considerava la pasta un cibo estraneo rispetto al ruralismo ideologico che celebrava le «Minestre, il minestrone con il riso, la polenta e le zuppe di legumi», spiega meglio al Gambero Rosso Alberto Grandi, storico e professore all’Università di Parma per i corsi Storia delle imprese, Storia dell’integrazione europea. Questo atteggiamento divenne una vera battaglia culturale e politica, culminata nella battaglia del grano del 1925, volta a rendere l’Italia autosufficiente nella produzione di cereali. Ma la pasta, prodotta con grano duro, richiedeva importazioni massicce, e il regime preferì promuovere il consumo di riso. Nel 1931, l’Ente Risi lanciò una campagna per diffonderne l’uso, con risultati limitati: al di fuori delle aree di produzione, il riso rimase un alimento poco diffuso fino agli anni Cinquanta. A tal proposito, il professor Alberto Grandi ci fa sapere che in provincia di Mantova, nel paese di Castel d’Ario, esiste una festa popolare, la bigolata «Un tipo di pasta lunga che si cucina con le sarde, che durante il regime fascista fu vietata e sostituita con una festa popolare del riso», successivamente, nel 1946, finito il regime la sagra di paese tornò a essere e a chiamarsi “bigolata”.

Da sinistra Hermann Göring, Mussolini, Hitler e il genero Galeazzo Ciano negli anni Trenta

Il manifesto della cucina futurista

A sostenere l’ostilità fascista verso la pasta si aggiunsero i futuristi, guidati da Filippo Tommaso Marinetti. Nel Manifesto della cucina futurista del 1931, Marinetti attaccava apertamente la pasta, definendola responsabile di «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo». La pastasciutta, secondo Marinetti, era un simbolo di un’Italia arretrata, incapace di abbracciare la modernità. Questa visione era perfettamente in linea con il regime fascista, che puntava a costruire un’identità nazionale lontana da qualsiasi influsso esterno.

«A differenza del pane e del riso, la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato (…). Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo».

Niente spaghetti per i fascisti (forse)

Eppure, nonostante le campagne del regime, la pasta rimase un elemento centrale della dieta italiana. Nel libro La cucina italiana di Alberto Capatti, ci fa sapere il professor Alberto Grandi, si racconta un aneddoto illuminante: durante la visita in Italia di Hitler nel 1938, a Firenze si fermò a mangiare assieme a Mussolini, che – nonostante fosse romagnolo – mangiò una fettina di pollo, mentre il dittatore tedesco chiese di mangiare un buon piatto di spaghetti, che venne richiesto di cucinarli, dal racconto del cuoco, appositamente «alla tedesca», cioè stracotti. Come puntualizza il professor Grandi, «il fascismo non ha categoricamente vietato la pasta, ma l’ha osteggiata. Se poteva sostituirla, lo faceva».

La famiglia Cervi

Qualche anno dopo, nelle campagne italiane, la pasta diventava simbolo di resistenza. Emblematico è l’episodio dei fratelli Cervi, che il 25 luglio 1943, dopo la caduta del regime, distribuirono pastasciutta ai loro concittadini di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia. Questo gesto, che celebrava la libertà e la caduta del fascismo, costò loro la vita durante la Repubblica di Salò. Oggi, ogni 25 luglio, a Gattatico si celebra la “pastasciutta antifascista” in loro onore.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram