Cos’è Modernist Pizza
Tre volumi più un libro di ricette, per un lavoro di ricerca durato quattro anni: sono i numeri di Modernist Pizza, enciclopedia dell’arte bianca dedicata non solo ai professionisti del settore, ma a tutti i consumatori più curiosi, dai cuochi amatoriali agli addetti ai lavori, presentata il 20 giugno a Napoli. Quattro anni di analisi, viaggi, centinaia di esperimenti, confronti e dialoghi con i pizzaioli di tutto il mondo: così, dalla passione di Nathan Myhrvold – fondatore di Modernist Cuisine – e Francisco Migoya, nasce il grande libro sulla pizza, insieme a un solido team di collaboratori a livello internazionale. Continuiamo con un po’ di numeri: oltre 250 le pizzerie visitate, più di 1000 le ricette sviluppate, più una guida di viaggio alle migliori pizzerie in Italia, negli Stati Uniti, San Paolo, Buenos Aires e Tokyo. Per un totale di 1708 pagine corredate da 3770 fotografie: nei volumi 1 e 2 si raccontano la scienza, la storia, i fondamenti, i viaggi, gli ingredienti e le tecniche di preparazione, mentre il terzo è dedicato alle ricette, classiche e innovative. Ma cos’è che rende Modernist Pizza diverso dalle altre pubblicazioni di questo tipo? Ne abbiamo parlato con Francisco Migoya, co-autore e capo chef di Modernist Cuisine.
Il lavoro di ricerca di Modernist Pizza
“Innanzitutto, la maggior parte dei libri sono delle raccolte di ricette pensate per fare la pizza in casa. Poi ci sono anche dei volumi per tutti, ma sono molto pochi: il nostro è un lavoro dedicato a chiunque voglia saperne di più, dagli amatoriali ai professionisti”. Un libro per tutti e per tutto il mondo, “parliamo dei tanti stili di pizza esistenti, non solo quello italiano”. E poi la storia: “Abbiamo studiato il settore nei suoi diversi aspetti, ci sono tanti riferimenti storici da diverse parti del mondo, è una sorta di guida all’evoluzione della pizza”. Non manca, infine, la parte scientifica, fondamentale in Modernist Pizza: “La scienza degli ingredienti è complessa e affascinante, abbiamo fatto ricerche sui prodotti ma anche i forni, le attrezzature, tutta la parte più tecnica che abbiamo cercato di rendere accessibile a tutti. Vogliamo che questo sia un libro fruibile dal più ampio pubblico possibile”. Tradurre informazioni complesse a chi non ha basi solide sulla materia non è un mestiere semplice, “l’importante è far comprendere il concetto al lettore senza farlo sentire sciocco o impreparato. Per questo motivo abbiamo voluto mantenere per tutti i volumi un linguaggio comprensibile e soprattutto facilmente applicabile da tutti”.
Gli stili di pizza nel mondo
Pizza napoletana, ma anche newyorkese, stile Detroit o Chicago: quanti stili esistono nel mondo? “Moltissimi, tutti parimenti interessanti”. Le origini, però, sono da rintracciare in Italia, un lavoro di ricerca per niente scontato, “la pizza in principio era un cibo per poveri, contadini, non ci sono così tante testimonianze scritte, gli studiosi per molto tempo hanno trascurato il prodotto”. C’è una grande fetta della storia della pizza, quindi, mancante, “il primo documento risale al 1799, ma è l’unico. A partire da metà Ottocento, cominciano a esserci più tracce, quasi tutte straniere. Francesi o inglesi in visita a Napoli che scrivono del prodotto appena scoperto”. Il vero punto di forza dell’arte bianca a Napoli? “Il fatto che la maggior parte delle pizzerie storiche sono ancora a gestione familiare”, e poi le nuove generazioni che stanno cambiando il modo di approcciarsi a una buona tonda, “i giovani stanno rinnovando il settore, così da una parte abbiamo le insegne di sempre, che preparano il prodotto come una volta, dall’altra una schiera di pizzaioli appassionati che decide di scommettere su un prodotto diverso”.
Dall’Italia all’America, il lungo viaggio della pizza
Le preferite di Francisco? “Sammarco con la sua pizza canotto fa un lavoro straordinario, e poi ci sono naturalmente Diego Vitigliano e Franco Pepe, capaci di ribaltare la tradizione”. Una parola difficile, tradizione, che può trarre in inganno, “bisognerebbe interrogarsi su questo concetto, diverso per ognuno di noi”. E anche pericolosa, può portare fuori strada, “alle volte un grande bagaglio culturale come quello italiano può rappresentare un limite per il settore, che tende a rimanere fermo. A Napoli in particolare c’è un po’ quell’idea che la “vera pizza” si trovi solo lì, ma non è vero, non ora almeno. Ci sono tante tipologie buonissime in altre regioni e nel resto del mondo”. Basti pensare anche alla pizza creata dagli immigrati italiani in America, “gente a cui mancava il proprio cibo e che si è dovuta adattare con gli ingredienti a disposizione. Ha improvvisato ed ecco che è nata la pizza italo-americana”. Ma anche negli States spesso i consumatori hanno dei pregiudizi, “prendiamo New York, per esempio. Le persone si aspettano quel genere di pizza lì, più che altro una pizza da passeggio, da mangiare in fretta mentre si cammina, economica e non particolarmente buona”. Le vere città della pizza in America sono altre, come Portland, “dove non esiste uno stile specifico, forse proprio per via di questa grande libertà sono potute nascere nel tempo tantissime insegne di qualità, tutte diverse”. E poi San Francisco e Los Angeles, “che a mio avviso è la città statunitense più gastronomicamente interessante al momento, dove si ha accesso a ingredienti di qualità e le persone hanno più possibilità e voglia di spendere”.
Gli esperimenti e i prodotti
Parola d’ordine: sperimentazione. È stata questa la filosofia che ha guidato Nathan, Francisco e la loro squadra durante la stesura di Modernist Pizza. Esperimenti sugli impasti, le attrezzature, le salse, i formaggi, le farine. Tra i più curiosi, il cross-crusting, ovvero l’utilizzo di uno stesso impasto per riprodurre più stili di pizza, “quindi, per esempio, un impasto classico alla napoletana usato anche per lo stile Detroit, Chicago, New York. È un esperimento interessante soprattutto per i pizzaioli, che con una stessa base possono creare più tipologie di pizza”. Tanto anche il lavoro di ricerca sul formaggio, in particolare su fiordilatte e mozzarella di bufala, specialità tipicamente usate per condire le tonde. “La percentuale di grasso nel fiordilatte è del 3.4%, mentre nella bufala arriva all’8%, ma siamo riusciti ad alzare il livello nel fiordilatte usando della panna molto grassa, mentre con il latte di capra abbiamo ottenuto una mozzarella a metà tra le due tipologie”. Altro prodotto nuovo, una combinazione tra parmigiano e mozzarella, “che sa di parmigiano ma si allunga e fila come una mozzarella”. Si gioca anche con l’acqua, imprescindibile per un buon impasto: “La verità? Se un’acqua è abbastanza buona da essere potabile, va bene anche per fare la pizza. Non servono marchi speciali, e pensare che alcune pizzerie da New York ordinano l’acqua da Napoli! Immaginate i costi altissimi del tutto inutili…”. A proposito di spese superflue: per il team di Modernist Pizza non occorre ordinare formaggio fresco tutti i giorni, “abbiamo fatto moltissimi test sull’elasticità del fiordilatte, che dà il risultato migliore nel periodo compreso tra l’ottavo e il ventesimo giorno dalla produzione”.
E ancora farine, lievitazioni, forni, tempi e temperature. Con tantissimi assaggi, tutti alla cieca, “fondamentale è osservare e gustare bene il cornicione: se è tanto buono quanto la pizza stessa, allora siamo di fronte a un ottimo prodotto. Bisogna essere invogliati a mangiare la tonda intera, in tutte le sue parti”. Il libro procede così, tra storie e nuove scoperte tecniche, consigli per usare il lievito madre, ricette per le salse migliori e trucchi per riutilizzare gli avanzi. Intanto, si lavora anche al prossimo grande capitolo della saga, “che sarà sulla pasticceria. Ci concentreremo sulla viennoiserie e i dolci da credenza, crostate, biscotti, niente dessert al piatto o gelati. A breve andrò anche a Milano per conoscere meglio l’arte del panettone e poi si vedrà. In fondo, ogni lavoro ci porta via quattro anni…”.
Modernist Pizza – The Cooking Lab – €375 – pp. 1708 - modernistcuisine.com/books/modernist-pizza/
a cura di Michela Becchi