Ci siamo abituati a parlare di Milano come della metropoli più internazionale Italia, del centro del business, del posto dove convogliano i progetti più significativi e dove tutti i grandi gruppi vogliono accaparrarsi il proprio spazio, vetrina esclusiva o discreto pied-à-terre che sia. La pensiamo e la viviamo come la piazza più competitiva del Paese, nel bene e nel male, ne calpestiamo il campo sognando la Serie A, la percorriamo a velocità sfrenata per stare al suo ritmo, per poi lamentarci delle energie mentali ed economiche (i menu nell’ultimo anno sono aumentati di circa il 14%, per non parlare del carovita e dei prezzi del mercato immobiliare) che spendiamo per farlo.
Ma che fatica. E soprattutto, che peccato. Perché nella corsa all’ultimo soft opening, nel presenzialismo ossessivo agli eventi che contano, rischiamo di privarci della Milano “di quartiere”, quella delle piazzette nascoste cui alcune riqualificazioni intelligenti hanno restituito vita sociale e appeal urbano, quella dei mercati rionali, delle pasticcerie storiche, delle osterie “dove la gente culmina nell’eccesso del canto” per citare Alda Merini, la grande poetessa che alla sua odiata e amata città natale ha dedicato versi e pensieri tuttora di commovente attualità.
Milano cambia
Senza farci mancare il mainstream, dove qualcosa di buono ma pure ottimo (leggi sotto) puoi sempre scovare, nella nuova edizione della guida Lombardia - Il meglio di Milano e delle altre province non ci siamo lasciati sfuggire i luoghi milanesi più veri, uno fra tutti Cantine Isola, la storica vineria nel cuore di Chinatown - oggi una vera food district multietnica che comincia ad accusare il peso dell’overtourism senza regole -, dove si sbicchiera alla grande e alla quale va il premio speciale come una delle due migliori proposte al bicchiere della Lombardia. L’altra l’abbiamo colta nella campagna cremasca e in un ristorante rurale sano e solido, la Trattoria Via Vai, dove la cantina è gioiosa, disordinata, impolverata (ma custode di chicche incredibili) come quella “di uno zio ricco”.
Perché si va a tremila ma la lentezza della tradizione mantiene un’irresistibile attrattiva. Per cui è vero che si cavalca l’onda generando una serie di posti fac-simile, “osterie moderne” o “vinerie con cucina” che dir si voglia, che se hanno un senso è solo nella loro instagrammabilità, ma è altrettanto vero che dove c’è contenuto la gente torna (noi per primi) nella certezza di trovare la migliore cotoletta (come quella della Trattoria del Nuovo Macello, uno dei 5 premiati tra i Campioni della tradizione, ognuno per un piatto specifico e protagonisti di un tour di cene e un pranzo organizzato dal Gambero Rosso nell'ambito del progetto Bonarda #laMossaPerfetta) o un ossobuco che non ha rivali (è il caso della trattoria La Pesa 1902, dove la nuova intelligente gestione non ha snaturato la linea storica).
I migliori interpreti della tradizione
Stesso discorso per gli Ambasciatori del Territorio, uno per provincia, che anche in questa edizione sono l’espressione della più attenta e intelligente valorizzazione delle aree di appartenenza (e che sono stati protagonisti pure in questo caso del consueto tour di cene The Best in Lombardy Experience), e dove coabitano serenamente posti “top” come La Coldana di Lodi e “pop” come Testina a Milano, istituzioni confermate come l’Osteria della Villetta dal 1900 in Franciacorta (anche Tre Gamberi) e posticini da scovare come Taiocchino Taverna bergamasca a Bergamo.
Ma attenzione, onorare il passato non significa non guardare al futuro. Lo fa a velocità supersonica Alberto Gipponi di Dina a Gussago (BS), il nuovo Tre Forchette dove l’esperienza è una mirabolante avventura nella testa e nel cuore di uno dei cuochi che stanno scrivendo la nuova avanguardia italiana. E lo fa anche un oste sui generis come Michele Valotti alla Madia di Brione, che è sì una delle migliori trattorie d’Italia (Tre Gamberi confermatissimi) ma pure un laboratorio dove si lavora fitto fitto su ricette ancestrali, su una cucina "variabile e imperfetta", su una ricerca incessante sia in termine di tecniche che di micro-produzioni locali. Pur posti diversi sulla carta, sono entrambi proiettati verso l’avanguardia, e a loro, fra gli altri, viene attribuito il simbolo grafico, un razzo, con cui abbiamo scelto quest’anno di identificare un tipo di esperienza che ci catapulta fuori dalla comfort zone per spalancarci le porte di inedite prospettive gastronomiche.
Le cucine degli altri: Milano cosmopolita e inclusiva
Milano rimane comunque sempre il centro dell’hôtellerie di prestigio e della cucina internazionale: solo in città e nella sua provincia segnaliamo 93 ristoranti dalle tradizioni di tutto il mondo su un totale di circa 300 locali per mangiare (esclusi dunque i luoghi dello street food, i bar e le pasticcerie, le botteghe), con tre Tre Mappamondi stabili alle insegne della famiglia Liu (Ba Restaurant, Gong Oriental Attitude, Iyo Restaurant) e una delle quattro Novità dell’Anno a Iyo Kaiseki, ennesimo “colpaccio” di Claudio Liu che ha trasformato l’ex AAlto nel tempio della massima espressione della cucina nipponica. Mentre sul fronte bistrot, un terreno scivoloso dove abbiamo fatto diversi capitomboli navigando impavidi il mare magnum delle insegne che, come detto, spesso alla prova provata non mantengono le promesse fotografiche sbandierate sui social, le soddisfazioni non sono affatto mancate. Silvano vini e cibi al banco un nuovo Tre Tavole da applausi, Trattoria della Gloria si aggiudica uno dei due premi speciali al miglior servizio di sala, per l’atmosfera “croccante e dinamica”, lo staff coinvolto e coinvolgente, e perché quando prenotando dici “sono sola” e ti senti rispondere “ok, sei al bancone con noi?”, non vedi l’ora di essere a cena.
foto di copertina Insalata di radici e carote di Trattoria della Gloria