Ecco come si diventa il miglior bar del mondo

25 Feb 2025, 09:36 | a cura di
Una squadra di 35 persone, impegno nei confronti dell'ambiente e delle comunità locali. Ecco come l'Handshake di Città del Messico è diventato il miglior bar al mondo

Aperto nel 2021, l'Handshake è il miglior bar al mondo secondo la 50 Best Bar. La sua genesi è strettamente collegata a questo premio: nel 2018 Marcos Di Battista chiede a Rodrigo Urraca cosa si prova a vincere un premio del genere. Urraca non ne ha idea, e allora Di Battista lancia la proposta: «E se facessimo un bar?». Il progetto si è concretizzato qualche tempo dopo, insieme a Eric Van Bik.

Partono in 5 persone, ma il team cresce in breve tempo con una squadra in cui tutti ruotano nelle varie posizioni, garantendo che nessuno diventi indispensabile in un solo settore. Ma a caratterizzare il progetto c'è anche l'attenzione alla sostenibilità, sociale, economica ed ecologica. Handshake garantisce salari equi, buone condizioni di lavoro, parità di genere, si impegnano a ridurre l'impronta di carbonio e a generare un impatto positivo sul territorio. Producono vino naturale, birra, un vermputh e un bitter (in Italia). Di loro si è accorda anche LVMH, che nel 2022 ha stretto una partnership per acquisire il marchio Handshake per 2 anni nei Belmond hotel e per progetti con i marchi del gruppo. E tutto questo in appena 3 anni di vita, nei quali hanno scalato la classifica The World 50 Best Bar. Dal Messico all'Europa, con l'apertura di Shakerato, ad Amsterdam. La conversazione è stata corale con Marcus Di Battista – argentino di origini italiane – a fare da portavoce. Il suo cocktail preferito? Il Negroni: «l'equilibrio perfetto, ha l'essenza dell'Italia».

 

Come si diventa il miglior bar del mondo?

C'è molto impegno e lavoro dietro, ma il segreto di Handshake, lo diciamo sempre, è la squadra. Non siamo sempre al bar a lavorare, anzi, possiamo stare in giro per settimane; per questo serve un lavoro di squadra, una persona da sola non può farcela.

In quanti siete?

Abbiamo un team di 35 persone che lavorano tutto il giorno dietro il bancone, dando il benvenuto ai nostri ospiti; quando uno di noi è fuori a fare pubbliche relazioni, gli altri si occupano dei clienti e hanno giorni di riposo. Abbiamo una grande squadra e un'altra cosa molto importante: i nostri drink.

Chi li crea?

Il nostro terzo socio che viene dai Paesi Bassi, Eric Van Bik, si occupa della parte creativa, fa dei cocktail fantastici. Ma da soli non bastano, senza una squadra altrettanto fantastica.

Quanto conta l'accoglienza per arrivare in cima?

Tantissimo. Puoi perdonare un bar se i drink non sono all'altezza delle aspettative – una giornata storta può capitare - probabilmente darai una seconda opportunità, ma se il cameriere non è gentile e il servizio non è buono, non tornerai più. L'ospitalità messicana è troppo importante per noi. Io (Marcus, ndr) che sono nato in Argentina, sono rimasto impressionato dalla grande ospitalità di questo popolo quando sono arrivato in Messico, 16 anni fa. Noi prendiamo questo Dna e lo traduciamo nel nostro lavoro.

In che modo?

Per esempio quando un cliente si deve allontanare un attimo, qualcuno prende il suo cocktail e lo mette in frigo perché sia ancora perfetto quando torna.

Come è strutturata la vostra drink list?

Abbiamo signature e i nostri twist sui classici. Uno è un Negroni con foglie di fico. Un altro è il nostro top seller: la Piña Colada, che mollto importante per il nostro bar. Quando si pensa a una Piña Colada, si pensa a un drink cremoso e con molto zucchero nell'Hurricane. Noi lo prepariamo con brandy, poi lo chiarifichiamo, aggiungiamo carbonica per le bollicine, e usiamo un bicchiere alto.

Quindi non sembra una Piña Colada?

No! Quando arriva al tavolo le persone pensano sia un gin tonic. Li invitiamo a provare, gli diciamo che se non piace lo cambiamo con quel che vogliono. La gente rimane a bocca aperta perché il sapore è lo stesso della Piña Colada, è anche cremoso, consistente. Un altro cocktail fondamentale, per noi, è Once Upon a Time in Oaxaca (in foto), che è un tributo ai mezcal masters e al processo di produzione del mezcal; nella parte superiore è come se bruciasse, poi c'è una base di legno e sotto il liquido trasparente, che sembra solo un bicchiere d'acqua, con menta che bilancia l'affumicato del mezcal, quindi c'è un effetto wow. La presentazione è bellissima. Quante volte vi è capitato di andare in un posto e dire: «Che bicchiere, voglio provare quel drink»?

È importante l'effetto sorpresa?

Sì, alcuni chef lo fanno con un piatto, ma spesso quando assaggi un piatto sgargiante rimani deluso perché è molto semplice, a volte è il contrario: hai davanti qualcosa di molto semplice e non ti aspetti nulla. Invece quando lo provi, dici wow. È quello che stiamo cercando di fare qui.

E per quanto riguarda i drink non alcolici?

A Città del Messico in molti bevono analcolici, per i motivi più diversi, anche solo per continuare la serata dopo alcuni cocktail tradizionali, penso sia un'ottima idea avere un menu ampio con bevande di buona qualità che offrono opzioni a tutti i presenti. Al momento abbiamo cinque bevande senza alcol. Tre sono sparkling tea e altri due drink fatti da noi. Con il rotovapor (pensa che in tutto il Messico ce ne sono 8, e noi ne abbiamo 2 in laboratorio) togliamo l'alcol dai liquidi, ad esempio dal Di Batista, così possiamo fare un Americano analcolico.

Non cambia il risultato in bocca, il corpo del drink?

Il peso è diverso. Per limitare questo effetto noi facciamo lo stesso cocktail ma poi togliamo l'alcol, così si mantiene il sapore, poi spremiamo l'arancia al momento, in modo da avere la consistenza del succo e sembra ci sia anche l'alcol. In tanti si confondono.

Quale è il concept alla base dei vostri cocktail?

Prodotti locali con tecniche europee. Ci piace lavorare con piccoli produttori. Per esempio, c'è una piccola azienda agricola chiamata Ecobrotes a Sotchimilco, che è una specie di Venezia di Città del Messico, con i canali dentro la città. Possiamo avere dei prodotti con impronta carbonica pari a zero, che è molto meglio che prendere l'uva dal Cile o dal Perù. E poi vogliamo aiutare la nostra comunità, i nostri produttori, si tratti di agricoltura o di impianti stereo, o di altri cocktail bar.

In che modo lo fate?

Il primo menu che abbiamo realizzato è stato quello della pandemia, c'era un QR Code da scansionare che riportava una mappa di tutti i cocktail bar della zona, con indirizzo telefono email e anche la strada per raggiungerli da Handshake. Questo perché crediamo nella nostra comunità, vogliamo aiutarla e fare rete. E vogliamo creare una destinazione messicana.

Spiegatevi meglio

La gente va in Perù per mangiare perché è una destinazione per il cibo. Vogliamo provare a fare lo stesso per i cocktail in Messico, non perché ci siamo noi – uno solo non basta - ma perché ci sono tanti buoni cocktail bar. Vogliamo inserire il Messico nella scena della mixology mondiale contribuendo a creare una destinazione messicana. Condividere è bello. Allora cerchiamo di aiutare i nostri produttori locali, il piano terra di Handshake è dedicato ai prodotti messicani, poi abbiamo un cocktail molto venduto in cui usiamo il cioccolato come guarnizione, e per quello non lavoriamo con un grande marchio, ma con una piccola azienda. È molto bello che i nostri produttori siano molto vicini a noi. E non solo loro: abbiamo un'artista che ci fa i volantini, che sono delle piccole opere d'arte. E anche lei ci ha detto che si sente orgogliosa e felice di far parte di questo progetto. I nostro fotografo è con noi da 8 anni e viaggia con noi. Brad è il nostro head bartender, non era mai salito su un aereo, ora è stato in Asia, Europa: anche lui sta condividendo con noi. È una grande comunità.

Com'è la scena dei cocktail bar in Messico?

Beh non è una delle capitali mondiali, come può essere Londra. Da noi è iniziato tutto qualche anno fa, intorno al 2011, con Limantour, credo siano stati loro i primi in tutto il Paese ad aprire la strada, poi sono arrivati Hanky Panky, Baltra. Così, a poco a poco, hanno iniziato ad aprire altri bar nei dintorni, adesso credo che ci siano circa 25 cocktail bar in città, e continuano ad aprirne altri.

In cosa fate la differenza voi?

Lavoriamo con il nostro team, da Limantour per esempio ci sono solo un proprietario e un barista. Noi abbiamo cambiato l'approccio, iniziando a muoverci con il fotografo, tutto il nostro team ha bisogno di viaggiare fuori dal Messico una volta all'anno, poi da noi si riposa due giorni a settimana, in Messico in genere le persone si fermano solo un giorno alla settimana. Stiamo cambiando il panorama, ora altri bar utilizzano le nostre regole.

Ormai però siete anche produttori di bitter e vermouth in Italia, con il marchio Di Battista, come è successo?

Qualche anno fa siamo stati in un locale a Chicago che fa cocktail vintage, dove ho bevuto un Negroni degli anni '60. Torno a casa, parlo con i ragazzi di Campari in Messico e dico che vogliamo fare lo stesso da noi. Mi mandano due bottiglie che hanno, proviamo un Campari anni '70, ma è diverso da quello che voglio: cambiano continuamente la ricetta, è normale, è una grande industria e deve farlo. È normale. Ma noi vogliamo fare un'altra strada e tornare alle origini, usare i prodotti naturali senza sostanze chimiche, prodotti di una volta. Alla fine abbiamo deciso di produrci da soli alcuni spirits.

Con l'aiuto del Consorzio del Vermouth di Torino siamo andati a visitare un sacco di posti diversi, poi abbiamo siamo andati da Quaglia, a Castelnuovo Don Bosco, e abbiamo subito sentito l'energia di quattro generazioni di distillatori. È una piccola azienda che ci piace. Abbiamo un bitter e un Vermouth (che si chiama Domenico come il nonno, italiano, di Marcus). Il progetto è cominciato nel 2019. Ora stiamo vendendo il prodotto in Messico, in Costa Rica, abbiamo cominciato con l'Italia. E forse l'anno prossimo lavoreremo su Stati Uniti e Perù.

State aprendo un cocktail bar ad Amsterdam, potete dirci qualcosa in più?

Sì, si chiama Shekerato e si trova all’’interno di NH hotel Leidseplein. Aprirà tra la fine di aprile e l’inizio di maggio.

Ci saranno gli stessi cocktail di Città del Messico?

No, ci sarà lo stesso stile, ma drink diversi. Da Handshake abbiamo quasi esclusivamente ingredienti di piccoli produttori locali, e vogliamo rispettare questa filosofia anche ad Amsterdam. Quindi il primo passo è trovare le materie prime facendo una selezione tra fornitori e artigiani locali come facciamo in Messico. Poi il contesto è diverso, il Belgio è molto vicino per esempio. Prima di tutto dobbiamo avere ben chiaro quali ingredienti possiamo utilizzare e quali no. E in base a questo creare il menu di cocktail. Per il cibo abbiamo un accordo con uno chef stellato di Amsterdam per lavorare insieme.

 

Handshake Speakeasy - Mexico City - https://handshake.bar

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