Ignacio Medina lascia il giornalismo. Uno dei più importanti critici gastronomici mondiali, diviso tra Spagna e Perù, da sempre fautore di una attività militante: «il nostro lavoro è generare dibattito e polemica» suole dire. Il suo ultimo articolo su 7Caníbales è un j'accuse senza mezzi termini, come lo è sempre stata la sua attività di critico gastronomico, quella che oggi lascia perché – spiega – ha smesso di essere una professione ed è diventato quasi un hobby. Un hobby costoso. «Ogni anno spendo quasi il triplo di quanto guadagno» dice. E racconta come abbia trascorso gli ultimi dieci anni a cercare altri lavori che gli permettessero di finanziare una professione che ormai il mercato non è più disposto a remunerare dignitosamente. Le cose non stanno come dovrebbero, motivo per cui, con l'onestà intellettuale che gli è sempre stata propria e che gli ha procurato tante gioie e anche alcuni nemici, lascia il giornalismo con questo suo articolo, l'ultimo di una carriera durata 43 anni passati tra le colonne (tra gli altri) di El Pais, El Mundo, e di 7Caníbales. Ma, a 69 anni, non va in pensione, semplicemente si è reso conto che è arrivato il momento di lavorare per sovvenzionare la sua vita, invece che un lavoro che fa per gli altri.
In buona sostanza, con queste condizioni, il lavoro di critico gastronomico è un'attività in perdita, vista così diventata una professione per ricchi o - appunto - un hobby, da quando la crisi dell'editoria si è riversata su un settore che richiede indipendenza e conoscenza, due cose che implicano la possibilità di pagare viaggi, alberghi e pasti, quelli che nessuna azienda paga per lui da troppi anni. E – ci preme sottolineare - se questo accade con una delle più importanti firme del settore, cosa accade con i critici gastronomici meno noti? Con quelli che si stanno formando ora e che non hanno conosciuto il settore nelle sue dinamiche originarie, prima che diventasse impuro, ma sono nati e cresciuti nella necessità di arrangiarsi, auspicabilmente mantenendo integro il proprio rigore morale, quando c'è.
Il ruolo della critica gastronomica
Ribadisce invece la necessità della riflessione critica per la crescita del comparto: «riempire la sala da pranzo a più di 500 dollari a piatto non significa che il tuo lavoro sia maturo. Smettetela di confondere la fama con la qualità». Invece la critica gastronomica sta lentamente vedendo esautorato il proprio ruolo e ridotto lo spazio, e questo proprio nel momento in cui – dice ancora Medina - «la cucina sta vivendo il momento di maggior prestigio sociale della storia. Non è mai stata così popolare e così aperta (non dite democratica, per favore; è un insulto all'intelligenza in società afflitte dallo spettro della fame)». Si riducono gli spazi, si tagliano i compensi, si cede il passo a un'informazione figlia della comunicazione, orientata dagli uffici stampa e dai pr che detengono il controllo, diretto o indotto, su ciò che si scrive, praticata da qualche influencer che «proclama l'eccellenza di ogni boccone». Mentre «I pochi media indipendenti sopravvivono a stento».
Il cliente scomparso
L'amara conclusione: «La conoscenza e la credibilità contano sempre meno». Non solo: «Oggi le persone che cucinano, il sesso che le contraddistingue o il loro status sono più importanti del modo in cui officiano o servono il cliente». E il cliente è il grande assente in tutta questa dinamica perversa. Non ci si cura di lui, non lo si informa, non gli si fornisce una guida o uno strumento di conoscenza. «Succede in Spagna e si decuplica in questa America LatiI pochi media indipendenti sopravvivono a stento».na che si vanta delle sue cucine, anche se preferisce non sapere nulla di loro, al di là delle liste e dei premi, sempre bugiardi, ma così utili per proclamare il trito “siamo i migliori”». Il giornalismo gastronomico trova sempre meno strade, e quelle poche sono per lo più disseminate di frivolezze, mezze verità e argomenti contorti. Ci si vanta dell'ignoranza. «Non voglio questo tipo di giornalismo per me». Un giornalismo che ha «affrontato la perdita di lettori moltiplicando i video di animali virali, presumibilmente utili a catturare un pubblico che non ha mai letto il giornale (e continuerà a non farlo), invece di offrire contenuti che aiutino a recuperare il pubblico di lettori che la loro stessa inanità ha fatto perdere». E quando si pratica il giornalismo d'opinione la situazione è ancora più preoccupante.
Un altro addio pesante
Così il mondo del giornalismo gastronomico deve fare a meno di un altro protagonista di primo piano, dopo l'addio di Pete Wells, storico critico del New York Times, che a 61 anni si è ritirato per mettere fine a uno stile di vita che è un attentato alla salute. «Fare il critico gastronomico è il lavoro meno salutare d'America», concordava un altro storico critico pentito, Wells Adam Platt. Sarebbe meglio non limitare la valutazione alla sola America e aggiungere anche il più costoso.