Che cos’è che rende così desiderabile mangiare da Max Mariola? Che cos’è che spinge il milanese a prenotare con settimane di anticipo per trovare un tavolo in questa elegante grotta mediterranea in via San Marco, ai margini di Brera, aperta meno di un mese fa, dove i bicchieri di vino li ghiacciano prima (un’idea “paninara” direbbe la mia amica milanese di riferimento) e dove lo chef romano star dei social gira per la sala con un certo carrellino su cui manteca in diretta la Carbonara (“solo la Carbonara, eh!”)?
Me lo chiedevo l’altra sera, issato su uno sgabello del bancone, unico posto trovato dopo lungo brigare, telefonare, scrivere, whatsappare, votarsi a santi anche fuori dal calendario, roba che nemmeno Trippa (i foodies milanesi sanno di cosa parlo), un “per uno” alle 21,30 di un giovedì in cui non smette un secondo di piovere, e ogni volta che entra o esce qualcuno la porta elettronica si spalanca e una lama di freddo mi perlustra la schiena.
Risposta numero uno: è la solita Milano che sceglie un posto nuovo, ne inturgidisce l’hype, ne fa un caso letterario, lo affolla all’inverosimile e poi lo molla, all’improvviso, come se nulla fosse. “Te lo ricordi coso?”. “Coso chi”. Una dinamica da amore tossico, love bombing, gaslighting e abbandono. Ma mi auguro per Max che non sia la risposta giusta. (Risposta numero uno bis: è il locale più instagrammabile di Milano. Con una sera qui ci fai sei o sette reel e la figura di quello che ce l’ha fatta).
Risposta numero due: Max ci sa fare, fa una cucina di buoni ingredienti e moderata creatività, piatti saporosi, un filo ignoranti (ma giusto un filo), da Zeitgeist anti-stellato, non perfetti ma divertenti. Domina la sala da oste sagace, ha un sorriso per tutti, “ve vojo bene!”, “dovete sorridere”, “portate un po’ de mortadella, quella bbona”, non si ferma un attimo, il suo passato da triathleta torna utile, non c’è un solo cliente che non se ne prenda un pezzettino, del corpo dello chef.
(Risposta numero due bis, mia convinzione da quando, anni fa, mi sono trasferito a Milano da Roma: al milanese una certa romanità solare, sorniona ma elegante, espansiva con juìcio, spiritosa senza sbrachi, piace tantissimo. Max è come l’amico della Garbatella che ti spiega per l’ennesima volta la differenza fatidica tra “sticazzi” e me’ cojoni” e si diverte a farlo, non ti fa sentire cretino o forse giusto un po’. Il milanese upper class, ma anche medium class, ha una fottuta voglia di romanità, di quella rilassatezza autentica, di quel magistero del vivere sciallo che rappresenta il vero benchmark esistenziale del milanese imbruttito, categoria questa che forse ha stancato ma che vive e lotta con noi, ancora. Da questo punto di vista, Milano è il luogo giusto per un romano, molto più della stessa Roma. E anche Max me lo confessa, a domanda risponde: “Perché ho aperto qui e non a Roma? Perché questa è la città dove stare”. E lui si è traferito armi e bagagli, benvenuto).
Mangiare, ho mangiato benino. Prima un po’ di mortadella, che se ho capito bene viene portata a tutti come “ciao”, anzi “ahò!”. Poi un uovo barzotto accucciato su una fetta di pane tostato con broccolo romanesco, guanciale e fonduta di pecorino (Benedetto Max, si autocita lui). Quattro buone polpette di razza piemontese alla picchiapo’ (anzi, “picchiame un po’”) perfettamente cotte da inzuppare in una salsa quasi ketchup. Un sapido Risotto “alla Romanese” con cacio e pepi, scorze di limone di Amalfi, mantecato all’olio e all’immancabile pecorino, con una cottura del riso davvero meneghina. Niente secondo per me (ma c’è un Cotolettone che fa provincia, un Brutto ma buono di fassona, un viaggio a Oriente con il pollo Thai Max, una Catalana di baccalà, un Entrana marinata al bourbon che un cliente accanto a me che origlio definisce “un po’ stopposa”, un Radicchio di Treviso grigliato per gli animi vegetali), meglio un dolce: dribblo il Tiramimax e scelgo una Crostata di ricotta e visciole con ganache di cioccolato, la cosa più romana del menu, secondo me.
Bere, ho bevuto un Franciacorta Berlucchi servito nel bicchiere “paninaro” generosamente rabboccato. La carta è piuttosto stringata ma bene assortita, spostata sul mainstream. Ci sono anche cocktail che ho visto preparare da ragazzi svelti, non li ho provati ma la gente sembrava felice.
Stare, sono stato bene, anche da solo. Ho guardato i clienti, contenti di essere là, nel posto giusto al momento giusto, tutti a cantare, ad applaudire, a cercare le attenzioni di Max. Il posto è elegante, un po’ giungla urbana, una faccenda di specchi, neon, piante penzolanti, un lusso pop, il calore non manca, sembra quasi che debba prima o poi comparire un Tarzan in doppio petto. Compare invece Joe Bastianich, cappello texano e poncho inguardabile, chissà dove avrà parcheggiato il cavallo, speriamo al coperto, visto che piove guiarda come piove, madonna come viene giù. Il sottofondo musicale sembra la serata dei duetti di Sanremo, brani italiani anni Settanta-Ottanta, la Bertè, Rino Gaetano, Battisti. In un angolo un quadro composto da 2650 tessere metalliche (ho fatto il conto, giuro) riproduce il faccione sorridente di Mariola, l’effetto è un po’ inquietante in verità. I bagni sono tutti verdi, sapone Aesop come nei posti comme-il-faut, l’acqua che scende nel lavandino muovendo il braccino di un Pinocchietto di legno.
Pagare, si paga di più dei 45 euro che lui aveva indicato come tetto per un pasto-tre-portate. Gli antipasti costano dai 14 ai 20 euro, i primi dai 20 ai 26 (ma lo showcooking viene di più), i secondi dai 23 ai 28, ma il Cotolettone – auspicabilmente per due – 60. I dolci poco meno di 10 euro. I conti fateli voi.
Vado al Max, vado a gonfie vele.