Lo chiamavano il divo gentile, Marcello Mastroianni, per via dei modi garbati, dell'eleganza e del fascino innegabili coniugati a quel tanto di popolare che lo rendeva un vero antidivo, nonostante la fama planetaria, nonostante l'etichetta di latin lover suo malgrado appiccicata addosso. Indimenticabile Marcello de La Dolce Vita, incredibile Marcello de La Grande Abbuffata. Marcello che oggi avrebbe compiuto 100 anni: nato a Fontana Liri, in quell'angolo di Lazio che in tempi più remoti fu Campania e poi da ragazzino arrivato a Roma – quartiere San Giovanni – dove strappa qualche comparsa nei film del primo dopoguerra. Anche con De Sica, neanche ventenne, ne I bambini ci guardano.
La carriera e la fame atavica
La carriera da attore vera e propria, però, parte alla fine della seconda guerra mondiale: teatro e cinema, dove si afferma pellicola dopo pellicola. Il successo è inarrestabile, Marcello un'icona immortale, che conserva un posto privilegiato nell'immaginario collettivo. Attore instancabile, goloso come solo chi ha patito la fame sa esserlo. I registi gli chiedevano di perdere peso, lui prometteva, prometteva, ma poi il richiamo della tavola era più forte: «Non rinuncia a mangiare» scriveva sconsolato De Sica. Quando poteva organizzava quelle leggendarie fuitine a Ostia, in cerca di quel risotto alla pescatora della Vecchia Pineta che gli piaceva tanto.
Lo proponeva a Federico Fellini, un altro che come lui viveva la tavola in modo viscerale: cibo arte vita tutto insieme, un pastiche che indaga profondità inaspettate. La Grande Abbuffata ne è la sintesi scandalosa e abissale: i bisogni elementari e la loro sublimazione concettuale, artigianale, emozionale. Amava le minestre, pure, quell'incarnazione del cibo del popolo che ha bisogno di poco ma che dà tanto, come la pasta e ceci de I Soliti Ignoti: conforto, risarcimento morale e ristoro fisico. «Divento molto sospettoso quando a tavola vedo uno che non mangia» ebbe a dire una volta Mastroianni. Che oggi avrebbe 100 anni. E chissà cosa saprebbe raccontare di questo rapporto con il cibo nato fuori dall'indigenza, che non conosce la fame ma subisce gli strattoni degli appetiti della società.