È già la seconda volta che la foca fa il giro del molo. Killian non la sopporta, lo vedo che non la sopporta. La barca dondola sul mare d’Irlanda e il profumo del ghiaccio si cristallizza nei polmoni del pescatore che stizzito continua a imprecare contro «quello schifoso pinnipede». Ogni volta che lo chiama così sputa in acqua e si raschia la gola con colpi di tosse grassa, cattiva come lui. Killian non ce l’ha con tutte le foche: è esattamente quella nello specifico che odia.

Killian e la foca nel mare di Howth
Gli basta un’occhiata ormai per distinguere le foche che sguazzano nel porto, qualcuna la riconosce anche solo dal dorso: ci sono quelle più maculate, quelle più tonde. E la foca che Killian proprio non sopporta è la più facile da individuare, basta osservarle il muso: un lungo solco spellato le scava una cicatrice tutt’intorno alla gola, come se indossasse una collana di sangue. Che sia stata una lenza abbandonata o una rete, le ha graffiato anche la testa, e così quando riemerge le ferite arrossate scintillano alla luce del sole freddo sopra Howth. «Guardala, quella schifosa! E tutti quei turisti che la continuano ad ingozzare!» I turisti non sono molti in realtà: la pioggia graffia le barche del porto come un gatto annoiato, lento e incessante e le strade si sono dimenticate delle auto e della gente.
Il capannello spaurito di tedeschi sta lanciano patatine alla foca e applaudono quando il mammifero piroetta su sé stesso per afferrare un boccone.
Killian scuote la testa sputando un altro grumo di catarro sulla superficie nera dell’acqua e issa sul molo l’ultima delle casse. Lo seguo silenzioso mentre strascica gli scarponi bagnati sul cemento fradicio della banchina, ancora nervoso. Sono molto buffi per essere gli scarponi di un pescatore così burbero: troppo larghi e troppo rossi.
«Cosa hai imparato oggi?», mi urla sopra il chiasso della pioggia.
«A non dire lepre se salgo su una barca. Porta sfortuna».
«Bravo. E poi?»
«Se vuoi un’aragosta grossa, usa un’esca grassa. Teste di merluzzo, aringhe… il pesce oleoso è il migliore».
«Bravo», ringhia ancora tossendo al ritmo dei tuoni lontani.

Quelle strane mezze baguette nel market sul molo
L’acquazzone scroscia sommesso avvolgendo il porto come un velo di tulle grigio mosso dal vento e le porte del piccolo alimentari si aprono con un dlin dlon troppo allegro per i gusti di Killian.
Il vecchio pescatore sbraita un saluto al ragazzo dietro al bancone e indica qualcosa oltre la vetrata colma di vaschette di sottaceti, tocchi di salsicce, patate a fette e un sacco di altre cose: il ragazzo annuisce e si tira su le maniche. Mi guardo intorno e mi sembra di essere entrato in una via di mezzo tra un fast food e un minimarket, con sacchi di carta gonfi di demi-baguette appoggiati accanto alla cassa.
Il commesso ne sfila una dal mucchio e la apre in due, spennella di burro ogni metà e poi comincia a farcirle con ogni cosa riesca a entrarci dentro: la mezza baguette si unge d’olio e di grasso, funghi e pomodori si impiastrano nell’uovo fritto e nella salsa bruna e densa. Fette tonde e lucide di sanguinaccio bianco e nero si scontrano e s’infrangono sulla crosta dorata di un hash brown troppo spesso e la mollica del pane comincia lentamente a cedere sotto il peso degli ingredienti. È il breakfast roll.
La leggenda del druido e del breakfast roll di Howth
Killian sputa pezzi di salsiccia mentre mi racconta del druido, Padraig Caoimhin Mór, che alla fine del Diciottesimo Secolo passeggiava per le spiagge irlandesi.
«... e all’improvviso il vecchio inciampa, paf! Finisce col muso pieno di sabbia! Sarà stato un sasso, pensa, e si rialza, cerca il sasso, vuole dargli un bel calcio… ma non era un sasso, no signore: era una baguette!» La leggenda narra di una gigantesca armata di navi francesi e di un’improvvisa tempesta al largo di Cork e di come, nell'anno del signore 1796, quintali di demi-baguette sopravvissero al naufragio galleggiando fino alle coste irlandesi, proprio in mezzo ai piedi dell’anziano druido. A quel punto, per gli irlandesi, bastò pensare al condimento. È un cibo veloce, energetico, adatto a chi lavora e ha la testa sulle spalle: il breakfast roll combatté a fianco degli operai irlandesi ogni volta che fu necessario alzare la voce e li aiutò a portare a casa la giornata durante gli anni della Tigre Celtica, quando quest'isola riconquistò il suo orgoglio. E tutto perché Padraig Caoimhin Mór inciampò.
«Ci puoi credere o no, ma nel caso non dire nulla», biascica Killian masticando l’ultimo boccone del panino e butta la cartaccia facendomi segno di seguirlo.

"L'albero delle aragoste" e la cucina di Carol
«Là – indica oltre la foschia – A pranzo vai da Carol. Io devo fermarmi a finire una cosa, ma lì si mangia bene. E mentre vai fai una foto all’albero!». Non faccio in tempo a chiedergli di più che già si è allontanato borbottando, inghiottito dalla pioviggine.
Passeggiando lungo l’orlo della banchina con l’aria salmastra che s’intreccia ai capelli, si capisce cosa fosse l’albero di cui parlava Killian appena ce lo si ritrova davanti: decine e decine di trappole per aragoste e reti da pesca sono ammucchiati in una piramide in bilico sul mare. Le casse sono avvolte da una lunga fila di luci natalizie e al posto delle palle colorate i marinai di Howth hanno sistemato le loro boe arancioni che oscillano al vento. Per puntale, un gabbiano mi fissa serioso.
Continuo a perdermi oltre le barche e arrivo dove prima la foca era a caccia di una merenda: i turisti tedeschi sono scomparsi, sciolti dalla pioggia, ma il rumore di festa e risate alle mie spalle si fa sempre più alto.
Viene da una casetta dalle pareti di pietra, incastrata nel muro del porto. Sull’insegna c’è un kraken, furioso, che minaccia coi tentacoli una barca a motore. La scritta in giallo recita:
“Octopussy’s Seafood Tapas. License to chill”. È la cosa meno irlandese di tutta la cittadina. Perfino lo Starbucks oltre il molo, quello sotto al monte del cimitero, pare una presenza più legittimata.
Lo spettacolo del mare d'Irlanda
Apro la porta di uno spiraglio quando Carol mi poggia una mano sulla spalla:
«Ehi, welcome!»
«Hi! Sorry, I…»
«Ah sei italiano! – grida, spaventando una coppia di ragazzi seduti accanto alla porta – Vieni, vieni, metti comodo!»
Il locale è pieno: Carol cerca una sedia libera scansando i clienti ammucchiati, ma nulla; mi guarda dispiaciuta, non c’è posto. La pioggia continua a battere molle e sottile contro le finestre dell’Octopussy quando vedo i due tavolini all’esterno coperti a metà dalla tettoia in lamiera.
Il legno gocciola umido sulle sedie zuppe di pioggia, ma se questo posto ha la benedizione di Killian mi sembra una condizione più che accettabile.
«Potrei stare fuori?»
Carol mi guarda come si guardano gli sprovveduti e gli sprovveduti con problemi.
«Hai così tanta fame?»
Mi fa accomodare asciugando il più possibile il tavolo con un panno-carta e quando credo di aver deciso cosa provare, sceglie lei per me.
«Mio marito è di Pescara, so che cosa piace a voi italiani, aspetta qua!»
Mentre è dentro a prepararmi non so cosa guardo il mare negli occhi: è qui davanti, a un paio di metri da me, che si infrange sul pontile viscido di alghe.
Gli schizzi di spuma bagnano i gabbiani persi a bighellonare sul molo: gracchiano e agitano le ali ogni volta che un’onda troppo forte gli scompiglia le piume.
E quando due di loro cominciano a litigare con un trampoliere dal becco spezzato, Carol torna al tavolo.

Ostriche, chowder e cappesante al burro
Mi poggia davanti un piattino con tre ostriche, ma è riduttivo descriverle così. Ordinate, nelle loro valve, tre grosse carnose perle di marmo sono tracciate da venature d’argento che le fanno brillare al freddo del porto. Sono lucide, color avorio e mi basta metterne una in bocca per stare bene. La polpa è tenera e soda, così giusta e gentile al morso.
I gabbiani e il trampoliere hanno smesso di litigare quando Carol mi poggia davanti una ciotola di chowder fumante e qualche capasanta cotta nel burro.
La zuppa mi scotta la lingua, ma nella maniera più affettuosa: il freddo di Howth diventa immediatamente un sottofondo, lontano decine di mondi da me, il ricordo di un’altra vita. Il gusto è di molti più gusti confusi insieme: ci sono gamberi, merluzzo, vongole, molto aglio, forse panna e qualcosa di morbido e grasso.
Carol, il marito pescarese e la nostalgia d'Italia
C’è il cipollotto, il sedano e c’è tanto altro e Carol mi parla di quanto sia bella l’Italia e che non vede l’ora di tornare.
Quando va via con il vassoio di ciotole vuote rimango solo nella pioggia, coperto dal cappuccio del mio giaccone.
La pioggia continua a scrosciare sospesa sulla cittadina e sul mare d’Irlanda e dall’altra parte del porto, vicino al faro, vedo qualcuno.
È Killian, lo riconosco dagli stivali. Sta seduto sul cemento della banchina con le gambe a penzoloni sul mare e guarda in giù.
Sotto di lui, il muso della foca sbuca dall’acqua sporca, il collarino rosa che affiora e affonda tra le onde. Si fissano. Immobili. Sono lontani, ma il marinaio sembra sorridere.